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Continuità in (una) crisi? I motivi di una giornata di studio

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Il titolo scelto per il workshop e per questo volume è volutamente polisemico ed è incentrato su due delle categorie che, insieme a quella di trasformazione, da circa 30 anni sono al centro del dibattito storiografico sul III° secolo1. La forma interrogativa, poi, denota in maniera evidente come i dubbi e le domande siano ancora più delle certezze in questo ambito di studi e ben giustifica la decisione di dedicare una giornata di discussione al tema, limitato ad un ben preciso contesto geografico.

Pochi altri periodi della storia romana sono stati al centro del dibattito storiografico degli ultimi tempi quanto il III° secolo – e segnatamente il cinquantennio centrale compreso tra la morte di Alessandro Severo e l’ascesa di Diocleziano –, tanto che nel 2008 Laura Mecella ha ritenuto opportuno dedicare al tema un articolo, in cui affronta, tra l’altro, la discussa questione della definizione di tale epoca2. La studiosa, riprendendo il titolo di un corposo lavoro, uscito nello stesso anno3, sceglie la denominazione neutra e, in un certo senso, incontestabile di “età dei Soldatenkaiser”, che è priva della connotazione negativa che, invece, si potrebbe ritrovare nelle espressioni “crisi del terzo secolo” e “anarchia militare”, tuttora comunque ampiamente utilizzate per indicare questo convulso periodo4.

Un momento di svolta nella storiografia si può individuare negli anni ’90 del secolo scorso, quando le opere di Karl Strobel e Christian Witschel, pur con motivazioni in parte diverse, hanno contestato e in qualche modo ammorbidito la tradizionale visione di una crisi globale dell’Impero nel III° secolo – e segnatamente tra il 235 ed il 284 –, lasciando spazio piuttosto all’immagine di varie crisi regionali e alla categoria della trasformazione5. In massima sintesi, il primo studioso ha rivisto profondamente il paradigma ermeneutico del concetto storico di crisi a partire da un riesame delle fonti letterarie, documentarie e archeologiche del periodo: definisce, infatti, il suo lavoro come ein Beitrag zur Frage der zeitgenössischen mentalen Strukturen, ohne den Anpruch zu erheben, die Mentalitätsgeschichte des römischen Reiches im 3. Jh. abschließend zu klären6. Con questo approccio, ad esempio, viene molto ridimensionato il rilievo della sconfitta di Abritto con la morte di Decio sul campo, che non avrebbe impattato sulla percezione di fragilità e instabilità nella totalità dell’Impero, a differenza della guerra civile del 2537. Analogamente, la diffusa visione di una minaccia su tre fronti sotto Gallieno non appare più sostenibile, poiché con il suo regno quindicennale egli rappresentava nei contemporanei nonostante le usurpazioni la continuità e il successo dell’autorità centrale; peraltro, sul fronte orientale la capacità di risposta delle forze romane e alleate dopo le incursioni delle forze persiane all’interno dell’Impero avrebbe dato alla popolazione un senso generale di sicurezza, come attesterebbero l’ininterrotta espansione urbana e la floridezza economica della Siria fino al VI° secolo8. D’altro canto, i frequenti scontri con i Sasanidi, che nel 260 avevano portato alla cattura di Valeriano e alla presa di Antiochia – la seconda nel giro di pochi anni –, avevano causato, secondo la visione tradizionale, un profondo e diffuso senso di sconforto e insicurezza nel corpo dell’Impero, che mai aveva visto cadere un proprio sovrano in mani nemiche; alla luce di ciò, il limes dell’Eufrate è sempre stato indicato come un settore di grave difficoltà per lo Stato romano e quindi – possiamo dire – come uno dei punti focali della crisi. Le indagini di Strobel, ovviamente, non negano gli eventi appena citati, ma ne valutano in maniera molto differente le conseguenze, che sarebbero state limitate nel tempo e alle aree colpite dalle incursioni, senza che perciò si radicasse nella popolazione, soprattutto nelle altre regioni, un diffuso sentimento di insicurezza e di impotenza di fronte alle minacce che affliggevano l’Impero e i suoi abitanti, cui si addicono se mai i concetti di lunga durata di Niedergang e Verfall, ‘naturali’ nella comune interpretazione antica dei sistemi politici e poco influenzati dalle contingenze9. Il ragionamento appena visto per la Siria viene applicato dallo studioso anche ad altri settori caldi, ad esempio al limes in Germania Superiore e Rezia, giungendo alla conclusione che ein in seiner Symbolik oder mentalen Wirksamkeit mit der Eroberung Roms 410 n. Chr. vergleichbares Ereignis fand in den einzelnen Krisen und krisenhaften Entwicklungen des 3 Jh. nicht statt, die von der Bevölkerung des Reiches weder in ihrer Gesamtheit noch in großen Teilen als kontinuierliches Phänomen erlebt wurden10. Per il presente lavoro ritengo che due siano gli elementi della ricerca di Strobel degni di maggiore attenzione. Il primo è il ridimensionamento della portata degli eventi drammatici comunemente interpretati come dirompenti, catastrofici, cercando di vedere piuttosto i non pochi elementi di continuità nel pensiero contemporaneo agli eventi e nella documentazione materiale, ossia nelle fonti archeologiche, numismatiche ed epigrafiche. Il secondo, strettamente legato al precedente, concerne le profonde differenze regionali che attraversavano lo spazio immenso dell’Impero romano.

In particolare, la continuità nell’insediamento e il tenore della cultura materiale sono i punti focali delle indagini di Witschel, sin dalla monografia del 1999 e poi in successivi lavori dedicati allo spätantike Städtewesen11. Lo studioso, infatti, già nell’introduzione al volume dichiara che il suo obiettivo è di affrontare la crisi del III° secolo da un punto di vista fino a quel momento lasciato da parte. Analizzando il modello dell’Impero, individua tre livelli: Gesamtsystem der römischen Welt, Makrostrukturen e Mikrostrukturen12. Sono proprio le condizioni di queste ultime, in primo luogo le realtà civiche, riconosciute come l’elemento-cardine dello Stato romano13, ad essere oggetto di attenzione, nel tentativo di valutare le conseguenze ‘effettive’ sulle persone e sui territori degli eventi politico-militari e delle modifiche occorse alle macrostrutture, quali l’organizzazione dell’esercito e dell’amministrazione statale e il rapporto tra Stato centrale e istituzioni periferiche. Dato l’obiettivo, non stupisce affatto che la ricerca sia fondata soprattutto sull’analisi delle evidenze epigrafiche e archeologiche, per riequilibrare una visione storiografica ancora fortemente condizionata da häufig ausgemalte Katastrophenszenarien [die] in der Überlieferung stark übertont erscheinen und sich nur noch schwer von den […] wesentilch folgenreichen Formen von Krise unterscheiden lassen14. Con quest’approccio vengono alla luce le profonde differenze tra i diversi contesti geografici, molti dei quali presentano significativi elementi di continuità insediativa e amministrativa, che, secondo l’autore, non avrebbero ricevuto la debita attenzione per una visione predeterminata di crisi generalizzata sul territorio imperiale. Ad esempio, non si può parlare certamente di una crisi per l’Africa del III° secolo, in cui anzi si assiste ad un autentico floruit dell’economia e della cultura urbana15; d’altronde, soprattutto nelle province nord-occidentali compaiono già nella seconda metà del III° secolo evidenti segni di parziale abbandono, retractio urbis, squatter occupation e rifunzionalizzazione degli spazi, ma queste trasformazioni in der äußeren Form – anche profonde dal nostro punto di osservazione – secondo l’autore non significherebbero necessariamente declino e decadenza della struttura urbana in sé a causa delle invasioni di genti esterne16. Queste ultime indubbiamente misero alla prova le instabili macrostrutture – militari innanzitutto – che reagirono grazie alla loro flessibilità, il che permise che non fosse mai minata la stabilità del sistema17; a livello territoriale, è ovvio che si apprezzano i segni delle devastazioni, soprattutto a ridosso del limes, ma in genere le singole realtà colpite si ripresero, talvolta anche velocemente, mostrando una resilienza spesso sottovalutata. Nel caso di province che avevano una tradizione urbana poco radicata e che avevano assistito ad un autentico boom edilizio con la romanizzazione, si può piuttosto parlare di un ritorno a una dimensione congrua al tenore delle città a fronte di una monumentalizzazione che poteva essere percepita come eccessiva e non funzionale dagli abitanti18; questo fenomeno, tuttavia, non deve ingannare, perché non portò a un generale tramonto dell’urbanitas19. Tra l’altro, il periodo in questione vide verso la sua fine, con l’avvento della Tetrarchia, un cambiamento nella gerarchia tra i centri urbani con una nuova stagione fondativa legata alla riorganizzazione amministrativa e alla necessità di ‘creare’ le nuove permanenti Residenzstädte presso il limes. Proprio una di queste, Treviri, è presa in esame da Witschel come caso di innovata interpretazione storica dei dati materiali e, in particolare, dell’utilizzo degli spolia per nuove costruzioni, le mura urbiche su tutte. Tradizionalmente, questo fenomeno è stato interpretato come il segnale inequivocabile di mancanza di pietra e di una cogente necessità di fare fronte ad una situazione catastrofica conseguente alle invasioni dei Germani in Gallia: indagini più accurate hanno consentito di vedere che, in realtà, spesso le mura furono erette solo nel IV° secolo e con una certa attenzione all’aspetto architettonico, che prevedeva un reimpiego di pietre limitato e ben preciso, in ossequio a nuove e modificate espressioni stilistiche, legate a un cambio di mentalità delle élite e della società nel complesso e non alle ristrettezze economiche, come si era a lungo pensato20. E quest’ultimo, nella tesi dell’autore, è solo uno degli aspetti di un profondo processo trasformativo con casi di arretramento produttivo e demografico, talora iniziato già nel secolo precedente e che nel III° secolo ebbe un’accelerazione e attraversò le province e le singole aree geografiche dell’Impero a vari livelli, ponendo così le basi per la nuova e vitale fase tetrarchico-costantiniana, senza che vi sia stata una forte cesura che abbia comportato il crollo del Gesamtsystem, con l’abbandono sistematico delle realtà e delle strutture esistenti, che, invece, è indiscutibile tra V° e VI° secolo21. Con questa premessa, all’interno del III° secolo, tuttavia, l’autore – come in parte anche Strobel – individua un momento di accentuata difficoltà e insicurezza tra il 250/260 e il 280/290, per cui ammette che si possa parlare di crisi a patto di non intenderla come uno scenario unitario, ma facendo attenzione alle differenze regionali apprezzabili anche in quegli anni22.

In entrambi gli studi emerge indubitabilmente il collegamento – peraltro naturale – con la nuova, fiorente stagione di studi che ha rivalutato la Tarda Antichità e fornito, quindi, una prospettiva diversa, volta a illuminare a ritroso anche il III° secolo, la cui crisi, secondo la dottrina tradizionale debitrice del pensiero di Gibbon, poteva iniziare già con Marco Aurelio e sarebbe stata prodromica della decadenza tardoantica, considerata generalmente un processo indiscutibile23.

Soprattutto a partire dai lavori monografici di Strobel e Witschel si è sviluppato negli ultimi vent’anni un ampio dibattito tra gli studiosi, che talora hanno accolto le novità interpretative, talora le hanno respinte, ma certamente le hanno dovute tenere in considerazione e discutere, rianalizzando in profondità un periodo che in precedenza spesso non era al centro degli studi sull’età imperiale24. In particolare, pur con le naturali remore di parte della comunità scientifica, i due volumi hanno portato ad affrontare lo studio di quest’epoca, prestando attenzione alle differenze – talora anche profonde – che si dovettero produrre tra provincia e provincia, ma è ovvio che non è ammissibile metodologicamente l’idea di vedere un numero di Regionalgeschichten corrispondenti alle aree individuate indipendenti l’una dall’altra.

Esemplificativo del rilievo che la questione ha assunto nella riflessione storica è un importante contributo di Wolf Liebeschuetz – Was there a crisis of the third century? – all’interno degli atti di un incontro del 2006, dedicato al tema, a conferma della sua centralità per la comunità scientifica25. All’inizio dell’articolo, sintetizzando lo stato del dibattito, lo studioso scrive con una vena di ironia che transformation is the preferred term, even ‘anarchy’ is acceptable, but ‘crisis’ is out26, basandosi proprio sui lavori di Strobel e Witschel, da lui definiti ‘enemies of crisis’, in quanto minimizzano il peso degli eventi27. Egli critica quello che si può definire un bando alla parola “crisi”, legato a una sua caratterizzazione come ‘judgemental’ e ‘politically incorrect’, in quanto presupporrebbe un inevitabile peggioramento dell’Impero a seguito di questa fase28. Secondo l’autore, invece, la parola “crisi” resta la più adeguata alla situazione del III° secolo, che egli vede in una prospettiva unitaria, dalla morte di Alessandro Severo all’ascesa di Costantino, as a single, sustained crisis of the imperial office29, che avrebbe messo a rischio la sopravvivenza stessa dello Stato romano, ma va intesa in un senso neutro che non implichi necessariamente una conclusione negativa. A tal proposito, trovo ben esplicativo il paragone con la condizione di un malato, che, superato un momento di grave difficoltà, può tornare allo stato di precedente sanità, in questo caso con l’avvento della Tetrarchia e della dinastia costantiniana. Allo stesso tempo, però, anche Liebeschuetz inserisce come centrale la categoria della trasformazione, riconoscendo che in the course of the struggle a number of institutions and practices which had been basic to the functioning of the early empire were transformed30. Se per certi aspetti le sue considerazioni non sono molto dissimili da quelle di Witschel, egli è, tuttavia, molto più deciso nel vedere una profonda cesura nelle realtà cittadine alla metà del secolo, pur riconoscendo notevoli differenze all’interno del territorio imperiale31.

Non è questa la sede per proseguire in una dettagliata analisi della letteratura sul III° secolo degli ultimi vent’anni, ma certamente, nel presentare un quadro succinto del dibattito, del quale si sono appena presentate le posizioni opposte, si deve dare conto del fatto che alcuni studiosi hanno aderito alle tesi di Strobel e Witschel, rifiutando l’idea di una crisi globale e ponendo l’accento piuttosto sulla capacità di risposta e di resilienza delle strutture imperiali e sulle profonde differenze tra le diverse aree32. In tali lavori per descrivere il periodo si propende solitamente per l’utilizzo di termini più neutri, quali cambiamento e trasformazione, al singolare o al plurale. D’altro canto, pur con ragioni talora differenti, altri studiosi, tra i quali Andrea Giardina, Klaus-Peter Johne e Udo Hartmann, hanno continuato a ritenere, come Liebeschuetz, che la parola “crisi” sia la più adatta per definire la situazione di estrema difficoltà e rischio che attraversò l’Impero nel III° secolo – e segnatamente nel cinquantennio centrale –, che pure fu superata33. In particolare, questi studi hanno insistito sulle necessarie interdipendenze come elemento fondante dell’organismo imperiale, per cui, colpiti uno o più settori strategici, inevitabilmente la struttura nel complesso sarebbe entrata in difficoltà, in primis sul piano delle entrate fiscali34.

Come si evince già dal titolo del workshop e dalla succinta presentazione della letteratura fatta fin qui, nell’affrontare lo studio del III° secolo i dubbi e gli interrogativi sono più delle certezze, che, purtuttavia, ci sono. Non si può discutere che nel periodo 235-284 vi siano stati alcuni fenomeni propri di una crisi che l’Impero non aveva mai conosciuto fino a quel momento, almeno in misura così dirompente: instabilità al potere con frequenti usurpazioni e lotte intestine, minacce esterne su più fronti, spesso in contemporanea, con invasioni e devastazioni non solo sui confini, ma in profondità, secessioni temporanee di grandi porzioni di territorio, deficit fiscale. È, d’altronde, indubbio che la struttura dello Stato romano resistette e sopravvisse alle turbolenze e non venne meno neanche nel secolo successivo, pur essendo andata incontro ad alcune modifiche anche pesanti, su tutte quelle di Gallieno, che trovarono il loro definitivo assetto in età tetrarchico-costantiniana35. Si potrebbe allora rappresentare l’entità statuale come un fiume che dopo un lungo corso placido in pianura improvvisamente incontra una stretta, alcuni kilometri in un canyon, per poi riprendere per un altro cospicuo tratto un alveo largo, verso la foce. Le permanenze, nel periodo di interesse, andarono al di là della ‘semplice’ continuità nel funzionamento delle istituzioni, rappresentate innanzitutto dalla figura imperiale, che con gli uffici centrali condivideva la responsabilità di un’ampia produzione normativa, e, a livello periferico, dalle strutture di comando civili e militari, che sopravvissero grazie a incisive riforme e senza subire significative cessioni territoriali, al di là della Dacia36. Addirittura, non è azzardato affermare che dopo l’età dei Soldatenkaiser i confini furono più stabili e difendibili, così come le strutture di governo erano diventate più efficienti.

La continuità si può notare, ad esempio, nella comunicazione, che testimonia come valori, categorie e codici con cui le persone si confrontavano da secoli nell’ambito della civiltà romana non siano stati abbandonati; se mai, se ne possono percepire delle evoluzioni per veicolare messaggi peculiari, ma quasi mai in contrasto con la tradizione37. Certo, un’innovazione rilevante – ma certo non una novità – è rappresentata dall’associazione con particolari divinità, scelta dai cosiddetti imperatori illirici38 della seconda metà del secolo per far fronte all’instabilità della loro posizione, causata dalle circostanze politico-militari e dalle difficoltà nella successione, nonché, almeno per alcuni, dall’oscurità dei natali39. Quanto a quest’ultimo aspetto, ben poco si sa del primo dei Soldatenkaiser, Massimino il Trace, con cui – è quasi superfluo ricordarlo – si assiste a un deciso stacco dalla tradizione, fosse solo per la sua provenienza sociale, prima che geografica40. Già da allora tutti i tentativi dinastici, fatto salvo quello di Valeriano e Gallieno, fallirono in quanto, benché visti favorevolmente dalle masse militari, erano contrari alla designazione del migliore – mi si passi l’espressione semplicistica e abusata –, che costituiva l’insostituibile principio per la successione nel modello di impero disegnato dai Soldatenkaiser: è ovvio che il candidato individuato dalla “giunta di alti ufficiali” per lungo tempo di stanza nel grande comando di Sirmium doveva appartenere a quella stessa élite militare, che si sentiva ormai l’unica in grado di assumere l’onere della guida dello Stato41. Questo principio vide il suo esito più duraturo ed esplicito – anche se pare paradossale – alla fine dell’età dei Soldatenkaiser con la creazione dioclezianea della Tetrarchia, fondata proprio sulla selezione del migliore o, più precisamente, degli uomini migliori appartenenti all’alta ufficialità, con cui condividere le responsabilità del governo e verso cui indirizzare la successione42. In questa sede è scontato ricordare come di fatto la fine del sistema ideato da Diocleziano abbia corrisposto proprio con il ritorno al principio dinastico, allorché nel 306, alla morte dell’Augusto Costanzo Cloro, le truppe di Britannia – e non il collegio tetrarchico, che possiamo vedere come l’evoluzione naturale della giunta militare sirmiense – elevarono alla porpora, in luogo del Cesare Severo, Costantino, che in nome del padre malato le aveva da poco guidate in una fortunata spedizione43. Dalla visione dell’impero qui brevemente delineata – si rimanda al contributo di Giovanni Brizzi per una trattazione completa – emerge certamente un fil rouge che, attraversando il turbolento cinquantennio centrale del III° secolo, connette la dinastia dei Severi a Diocleziano. Se è vero che gli imperatori non erano più tratti dai ranghi del Senato, bensì dall’alta ufficialità legionaria, essi cercarono, tuttavia, di conservare il prestigio e la salus dell’istituzione, nel cui servizio e con i cui valori erano cresciuti. Ciò non significa che non siano occorse alcune decise innovazioni, ad esempio, nella concezione dell’imperatore – la mente va immediatamente alla ben nota definizione di Aureliano come dominus et deus – e nella sua legittimazione44. Questi due concetti mi permettono di passare all’aspetto che, alla luce dei miei interessi di studio, mi ha portato ad interessarmi al III° secolo, ossia la pratica epigrafica con i suoi cambiamenti.

Dal punto di vista materiale, è ancora frequente il ricorso alle statue con basi iscritte, per onorare innanzitutto gli imperatori, nonostante la frequente breve permanenza al potere. Complice anche questo fatto, si diffuse – per crescere poi considerevolmente nel secolo successivo – la pratica del reimpiego di manufatti, iscritti o no: ecco che si intravvede allora un esempio di variazione, di trasformazione, pur nel solco della tradizione45. Passando invece ai testi epigrafici, il contenuto delle iscrizioni pubbliche, spesso standardizzato quando non protocollare, non è dissimile da quello di età antonina o severiana, ma, nelle attestazioni onorarie, ad esempio, si assiste alla maggiore o minore incidenza di determinati termini sia per i dedicanti che per i dedicatari. Nel caso di omaggi agli imperatori, elementi dal forte contenuto simbolico, quali Dominus Noster in apertura, l’immancabile associazione Pius Felix Invictus o devotus numini maiestatique eius in chiusura, già testimoniati nel tardo II° secolo o sotto i Severi ma che si diffusero sempre più nel III° secolo, sono lo specchio di una concezione del sovrano come rappresentante divino in terra piuttosto che come princeps che affonda i suoi poteri nelle magistrature repubblicane46. Quanto all’epigrafia imperiale, un altro cambio rilevante che in alcune regioni europee, tra cui quelle qui indagate, si attuò già nel cinquantennio centrale del III° secolo riguarda le modalità con cui i ‘sudditi’ solevano esprimere lealtà all’imperatore: progressivamente, a seconda della tradizione delle singole zone, si passò infatti dalla base al miliario – che, secondo alcuni studiosi, forse reggeva una statua – e dal foro, ormai considerato poco attrattivo, ad altri punti cospicui al limite o fuori dalla città, mentre il messaggio epigrafico nella sostanza era quello di un’iscrizione onoraria, comprendendo talora anche la comunità come dedicanti e sovente Cesari ed Auguste come dedicatari47. Di conseguenza, i miliari rimangono spesso l’ultima testimonianza di iscrizioni pubbliche, in seguito alla drastica diminuzione del ricorso all’epigrafia dopo il 250 d.C., che non è più interpretata, secondo la visione di Stanislaw Mrozek, solo come un riflesso immediato degli eventi politico-militari, delle ristrettezze economiche delle città e delle conseguenti difficoltà a rifornirsi di pietre48, ma anche come conseguenza di un profondo cambio di mentalità, in particolare con riferimento all’auto-rappresentazione in seno alle comunità civiche, pur con rilevanti differenze tra province più o meno conservative, tra Nord e Sud dell’Impero49. Allo stesso cambio di percezione e di funzione degli spazi civici, che, almeno a mio parere, riguarda strutture mentali e quindi qualcosa di più della mera äußere Form, sono da ricondurre le modifiche all’epigraphic habit all’interno di città che erano tutt’altro che morte50.

Gli imperatori, tuttavia, continuarono ad utilizzare molti degli strumenti consueti per i loro predecessori per trasmettere i messaggi desiderati agli abitanti dell’Impero51. Gli studi di Olivier Hekster ed Erika Manders hanno evidenziato la grande attenzione rivolta all’iconografia monetale dai sovrani – legittimi o usurpatori – dell’età dei Soldatenkaiser, che si preoccupavano di veicolare messaggi in risposta alle circostanze spesso emergenziali, il che indica non solo come la corte fosse ancora raffinata nel selezionare simboli adeguati, ma anche come i recettori vi dovessero prestare adeguata attenzione52. In particolare, è interessante che i quattro tipi più ricorrenti sui rovesci nella monetazione imperiale del periodo siano le rappresentazioni militari, l’associazione divina e le virtù dell’imperatore e di suoi famigliari, e, infine, il secolo aureo, tutti soggetti che figurano già in epoche precedenti, anche se con minor rilievo, e che vennero ritenuti particolarmente adatti a rafforzare la posizione del sovrano e della sua domus in momenti di così forte instabilità53.

L’aspetto che più ha suscitato interesse – o, meglio, che in seguito ai lavori di Witschel è stato maggiormente al centro delle riletture sul periodo e del conseguente dibattito scientifico – è la continuità nella vita quotidiana delle comunità civiche, documentata in particolare dalle fonti archeologiche; oltre a ciò, nonostante il crescente interventismo statale, soprattutto a scopo di garanzia fiscale, non si può più affermare che gli ideali alla base della cultura cittadina fossero venuti meno, specie intorno al bacino mediterraneo. È chiaro che l’affermata continuità, però, ha una rilevante ricaduta sulla ricostruzione storica, perché, sulla base di un tale postulato, il peso della crisi economica dovrebbe essere inevitabilmente ridimensionato. Come segnalato da Lukas De Blois anche nel suo ultimo libro, il permanere delle infrastrutture non è sufficiente a informarci su come proseguisse l’attività in quelle città, specie laddove l’epigrafia patì un pesante calo quantitativo54. Di fronte alla sensibile diminuzione delle attestazioni di cariche municipali o di associazioni, siamo legittimati a pensare che abbiano dovuto interrompere l’esercizio della loro attività o che, al contrario, questa sia proseguita in maniera non molto dissimile dalle epoche precedenti e che semplicemente siano stati preferiti altri strumenti comunicativi diversi dalla pietra iscritta? Potremmo essere, dunque, solo di fronte a una discontinuità di espressione in una continuità di vita, laddove, comunque, ci sono tracce di attività edilizia?

Venendo ora al focus geografico del workshop, il settore balcanico-danubiano, insieme a quelli germanico e siriaco, fu uno di quelli maggiormente toccati dagli eventi drammatici che determinarono il turbolento svolgersi del secolo, ma non viene trattato quasi per nulla nei libri di Strobel e Witschel, e anche nelle opere successive pochi sono gli accenni55. Eppure, a differenza della Dacia, il Norico, le Pannonie, la Dalmazia e le Mesie rimasero all’interno dell’Impero e, quindi, mi pare opportuno chiedersi in che misura le agitazioni militari e le invasioni che coinvolsero le regioni di questo tratto del limes andarono ad aggiungersi alla crisi ‘diffusa’ che avrebbe, secondo la letteratura tradizionale, afflitto tutto l’Impero56.

Alcune aree furono sottoposte alle devastazioni e alle occupazioni da parte delle popolazioni barbariche, ma non tutte le province o tutte le aree ne furono toccate in misura uguale, per cui potrebbe essere lecito attendersi una continuità diversa anche tra realtà urbane relativamente vicine l’una all’altra. La presenza di truppe con le loro esigenze pesava poi sui territori, innanzitutto se poniamo la mente ai saccheggi che potevano compiere i soldati; d’altro canto, la presenza dei grandi accampamenti legionari – in primis il quartier generale di Sirmium57– fece senza dubbio affluire più denaro là che altrove. È allora lecito chiedersi se questo abbia mitigato la crisi dei centri urbani – o addirittura li abbia favoriti – attraverso una movimentazione maggiore di merci e l’aumento dei flussi commerciali, dati dalle normali esigenze di un più alto numero di persone e dalle contingenze straordinarie di un’economia di guerra, come spesso si dice per la storia contemporanea58. Non si può, inoltre, tralasciare il fatto che spesso gli imperatori con i loro seguiti soggiornarono per necessità in queste province, sebbene fossero direttamente soggette alle invasioni dei popoli germanici, e che questo potrebbe aver arrecato anche vantaggi economici, come fu il caso, ad esempio, di Milano e Aquileia, che alla fine del III° secolo godettero di una floridezza ben maggiore delle città dell’Italia centro-meridionale, che pure non erano state toccate dai fatti d’arme59. D’altronde, le mutate condizioni geo-politiche promossero la crescita di nuovi centri in età tetrarchica, ma questo fenomeno in parte fu anticipato di qualche decennio proprio nell’Europa sud-orientale60.

Venendo ora alla definizione tradizionale in letteratura, seppur discussa, di “imperatori illirici” o Illyriciani, i Soldatenkaiser – o per lo meno alcuni – provenivano dall’Illirico, inteso nel senso più ampio, proprio dell’età tetrarchica e tardoantica61; ciò potrebbe aver dato luogo a un rapporto privilegiato con queste terre e averli indotti a un maggiore impiego di risorse62. In verità – come spiega Brizzi nel suo contributo in questo volume – il legame con l’Illirico per la maggioranza di essi non era dato dall’appartenenza etnica, bensì dalla lunga frequentazione della regione per motivi militari e, in particolare, dal loro servizio nel succitato quartier generale di Sirmium. Ad ogni modo, per questo aspetto può essere interessante verificare se le fonti a nostra disposizione permettono di delineare una situazione peculiare rispetto ad altre aree dell’Impero; pur con le differenze del caso, il pensiero va immediatamente all’Africa in età severiana.

In considerazione delle peculiarità appena esposte, del dibattito in corso sulla natura della crisi e del fatto che le opere di riferimento per la storia regionale, fatta eccezione per i volumi su Norico e Pannonia curati da Marjeta Šašel Kos e Peter Scherrer nei primi anni 2000 e la monografia di Péter Kovács sulla Pannonia durante il principato63, datano ad un momento in cui la questione era ancora percepita in maniera differente, si è ritenuto opportuno nel 2019 dedicare una giornata alle riflessioni di studiosi di provenienza differente, i cui contributi sono raccolti nel presente volume, per far emergere nuovi dati che contribuissero a rispondere, almeno in parte, ai tanti interrogativi in campo. Per concludere, a conferma della opportunità di tale iniziativa, ritengo interessante rilevare come negli stessi anni vari esponenti della comunità scientifica abbiano sentito la medesima esigenza di mettere a fuoco la situazione di quest’area periferica e allo stesso centrale dell’Impero nei turbolenti decenni centrali del III° secolo64.

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  • Notes

    1. Sul significato di crisi, transizione e trasformazione e sul loro valore identificativo per un periodo storico, in questo caso la Tarda Antichità, vd. tra gli altri Giardina 1999, 170-171; Marcone 2020, 47-74.
    2. Mecella 2008 da integrare per gli anni successivi con de Blois 2018, 20-25 e Nappo 2022. In particolare, Mecella 2008, 658-663 affronta la questione delle definizioni “età dei Soldatenkaiser” e “anarchia militare” con ricca bibliografia commentata. In merito vd. tra gli altri Brizzi 2012, 367-384, che evidenzia come la prima espressione, non debba essere intesa come l’affermazione della volontà di differenti masse di soldati in occasione di ogni elezione alla porpora, bensì come un nuovo progetto politico per la guida dell’Impero che era stato sviluppato nel quartier generale di Sirmium da parte di “quella che finì per configurarsi come una vera e propria giunta di generali: […] un gruppo di alti ufficiali, riuniti per lungo tempo e quindi in grado di trovare l’accordo circa le priorità, il futuro ricambio ai vertici dell’impero, i fini da conseguire una volta raggiunto il potere” (pp. 371-372). In modo parzialmente diverso si esprime Heil 2006.
    3. Johne, hrsg. 2008.
    4. Per quanto riguarda le due espressioni, si deve specificare che con la prima talora si intende un arco cronologico più ampio che include anche l’età dei Severi, con la seconda, invece, soltanto il cinquantennio 235-284. Sulla periodizzazione del III° secolo vd. ancora Mecella 2008, 662-663 con ampia bibliografia.
    5. Strobel 1993; Witschel 1999.
    6. Strobel 1993, 18. Sullo scopo e il metodo della ricerca vd. partic. 11-20; 32-36.
    7. Strobel 1993, 286.
    8. Strobel 1993, 286-290, con considerazioni che porterebbero anche a negare un’escalation della minaccia con l’avvento dei Sasanidi e a vedere una sostanziale continuità nella politica estera di Roma dall’età augustea al IV° secolo.
    9. Strobel 1993, 318-340, con un dettagliato riesame del rapporto tra politica e religiosità nel periodo.
    10. Strobel 1993, 289-295, da cui (p. 292) la citazione.
    11. Witschel 1999, poi, tra gli altri, Witschel 2003; Witschel 2004; Witschel 2020;
    12. Witschel 1999, 20, ripreso in Witschel 2003, 253-255.
    13. Con Mikrostukturen non si fa riferimento solo alle città, ma a una realtà più variegata, ossia die lokal jeweils unterschiedlich ausgeprägten antiken Lebenswelten innerhalb des durch das Gesamtsystem und die Makrostrukturen vorgegebenen Raumes, die zumeist einem ganz eigenen Entwicklungsrhythmus unterworfen waren (Witschel 1999, 23-24). Quanto al rilievo dato alle città, cfr. l’esteso capitolo dedicatovi (pp. 118-159).
    14. Un’ampia disamina delle varie tipologie di fonti è in Witschel 1999, 25-117; la citazione è da pp. 18-19.
    15. Witschel 1999, 285-306.
    16. Per il presunto crollo delle realtà cittadine vd., ad esempio, Witschel 1999, 133-159 e poi Witschel 2004, 244-258, che affronta anche il tema delle modifiche nell’autorappresentazione dei ceti dominanti, su cui si tornerà infra.
    17. Witschel 1999, 24.
    18. Witschel 1999, 152; Witschel 2004, 240-241.
    19. Witschel 1999, 120-122.
    20. Witschel 1999, 146-150; Witschel 2004, 237-244; Witschel 2020, 443-445.
    21. Witschel 1999, 23-24, 375-377.
    22. Witschel 1999, 375-376, ripreso in Witschel 2003, 273-274 e da ultimo in Witschel 2020 con attenzione ai singoli eventi, che pure evidenzia come anche nelle province nordoccidentali ci siano stati forti elementi di continuità tra l’inizio e la fine del III° secolo, per cui non è legittimo evocare un quadro di totale crollo.
    23. Oltre a Strobel 1993, 20, 340-348, Witschel 1999 e Mecella 2008, 667-670, sul rapporto tra III° secolo e Tarda Antichità nella storiografia recente sono da tenere in considerazione: Giardina 1999, 163-166, che parla di “espansionismo del tardoantico”; Giardina 2006, 15-16; Marcone 2020, 50-53, che definisce gli anni tra il 240 e il 280 come un periodo “di transizione” (p. 50), in cui si manifestarono già alcuni fenomeni caratterizzanti dell’età successiva; da ultimo Nappo 2022.
    24. Vd. ancora Mecella 2008, 664-668. Per valutare l’impatto nel dibattito delle nuove interpretazioni è imprescindibile Johne, hrsg. 2008.
    25. Liebeschuetz 2007, con ampia discussione del temine nella storiografia più recente; Hekster et al., ed. 2007.
    26. Liebeschuetz 2007, 11.
    27. Liebeschuetz 2007, 12.
    28. Liebeschuetz 2007, 16.
    29. Liebeschuetz 2007, 17. Sull’opportunità di utilizzare quella definizione vd. anche 16, 18-20.
    30. Liebeschuetz 2007, 17.
    31. Liebeschuetz 2007, 18. Più specificamente sul tema Liebeschuetz 2006.
    32. Così, ad esempio, Potter 2004; Bravo Castañeda 2012; Bravo Castañeda 2013, che nega l’idea di una crisis histórica a favore di crisis conyunturales. Similarmente Drinkwater 2005, 58-64.
    33. Così, ad esempio, Gerhardt 2006; Giardina 2006, 16, che afferma che l’explication traditionnelle de la crise du IIIe siècle qui entrecroise de diverses manières la chute démographique, les dommages de guerre, les dépenses militaires croissantes, la pression fiscale, la régression économique, les contraintes imposées aux travailleurs, l’interventionnisme de l’État, garde par conséquent tout sa validité; Johne & Hartmann 2008, che scrivono che diese Krise war vor allem eine politisch-militärische, sie fand in der Mitte des 3. Jahrhunderts ihren Höhepunkt, da die politischen Institutionen des Reiches und die Führungsschichten nicht mehr in der Lage waren, die Probleme zu meistern; […] Somit kann die Krise des 3. Jahrhundert als eine Epoche verstanden werden, in der sich das politische System schrittweise transformierte, ohne das System selber unterging (p. 1033), ma allo stesso tempo sottolineano che le indagini più recenti non permettono più di parlare di una crisi globale del III° secolo, perché si deve differenziare decisamente tra regione e regione e i processi di trasformazione sociale furono lenti e graduali, tanto che buona parte della popolazione non se ne rese conto e in questo si avvicinano molto alla posizione di Witschel; da ultimo Nappo 2022.
    34. Ad esempio, Eck 2007, che, comunque, sottolinea la continuità di vita di buona parte dei centri; Johne & Hartmann 2008, 1034-1035 con bibliografia; de Blois 2018, 24-25, che, però, considera corretta la definizione di crisi solo per un quarto di secolo, tra la morte di Decio e il regno di Aureliano.
    35. Tra gli altri Elton 2006; Johne & Hartmann 2008, 1046-1043.
    36. Sulle riforme Johne & Hartmann 2008, 1041, che tuttavia rilevano una continuità con l’epoca alto-imperiale e un’estrema gradualità nella trasformazione delle strutture dell’Impero. Sull’aspetto giuridico Fargnoli 2023. In politica estera Strobel 1993, 286-293 nota anche una certa continuità.
    37. Oltre ai vari studi di Witschel già citati, vd. de Blois 2006.
    38. Per una discussione sulla denominazione vd. infra.
    39. Tra gli altri, Johne 2008, 621-622; Johne & Hartmann 2008, 1040-1043; de Blois 2018, 242-246, che amplia il discorso agli imperatori a partire a Commodo e non vede un necessario collegamento con l’umile origine, ma piuttosto con l’assenza di successi militari.
    40. Sull’origine di Massimino e dei Soldatenkaiser vd. ad esempio Johne 2008, 586-600.
    41. Così Brizzi 2012, 370-373, ripreso da ultimo in Brizzi 2024, 220-227. Nella stessa direzione Mecella 2019, 255-261 insiste sull’unità d’intenti tra generali nel quartier generale di Sirmium dove “si vennero a creare le condizioni favorevoli per la formazione di quel glorioso maresciallato, come è stato definito, cui nel volgere di pochi decenni si dovette la salvezza dell’impero” (p. 255). Emblematica dell’opposizione tra il potere che promanava dal comando di Sirmium e la scelta dinastica è la vicenda di Gallieno, che abolì il quartier generale nella città pannonica e, coerentemente con il suo disegno per la successione, nel 256 elevò al rango di Cesare e inviò a comandare le truppe del settore il figlio maggiore Valeriano iuniore, che scomparve nel 258 in circostanze non chiare: su questi fatti vd. tra gli altri Zaccaria 1978, 122-136; Goltz & Hartmann 2008, 239-244; Geiger 2013, 88-93, che a parla di das Bedürfnis nach Kaisernähe zu erfüllen (p. 89) con riferimento al confine danubiano; Mecella 2021, 79-81, che individua nella vicenda di Gallieno e della sua famiglia il caso emblematico dell’opposizione tra pretese dinastiche e successione per scelta delle gerarchie militari. Peraltro, potrebbe non essere affatto un caso che subito dopo venne acclamato l’usurpatore Ingenuo, altro comandante militare di stanza nella stessa città, su cui vd. recentemente Geiger 2013, 292-293. Sul problema della successione e dell’ascesa al trono nell’età dei Soldatenkaiser vd. tra gli altri Johne 2008, 603-615; Johne & Hartmann 2008, 1037-1038, con riferimento alle acclamazioni di Augusti da parte delle truppe al fronte prive del comando imperiale, e da ultimi Waldron 2022, 148-159 e Carlà-Uhink 2023, 25-29, ambedue con un interessante sguardo retrospettivo a partire dall’età di Diocleziano.
    42. Johne & Hartmann 2008, 1051-1052; Brizzi 2012, 377. Si tenga comunque in considerazione che, nonostante la volontà di Diocleziano, anche all’interno del collegio tetrarchico si erano sviluppati legami parentali e conseguenti linee dinastiche, per cui nel 305, al momento dell’abdicazione di Diocleziano e Massimiano, “per nascita e per vincoli matrimoniali, tanto Costantino quanto Massenzio s’aspetta[va]no la nomina [a Cesare]”, come scrive Umberto Roberto (2013, 54). Oltre a questo studio, sul tema vd. negli ultimi anni Waldron 2022, partic. 145-148, 159-165; Carlà-Uhink 2023; Brizzi 2024, 228 che, invece, preferisce parlare di un “meccanismo che non vieta[va] categoricamente la successione agli eredi di sangue”, ma che di fatto la escludeva, se si guarda alla prima successione.
    43. Sulla nomina di Costantino, oltre a Roberto 2013, 55-56 e Waldron 2022, 115-121, vd. Humphries 2008, 83-90.
    44. Ad esempio, de Blois 2006; Johne & Hartmann 2008, 1039-1043 fanno riferimento proprio ad Aureliano come punto di arrivo di un processo iniziato già nei decenni precedenti, che introdusse anche nel cerimoniale di corte elementi propri di una theokratische Herrschaft.
    45. Vd. diversi contributi in Bauer & Witschel, hrsg. 2007; Smith 2016, 4, 20-21.
    46. Su tali titoli e le modifiche nell’epigrafia imperiale del III° secolo vd. Chastagnol 1988; Christol 1999; Johne 2008, 615-621.
    47. La letteratura degli ultimi vent’anni sul tema è molto ampia, perché ormai è stato acclarato che i miliari non avevano più una funzione principalmente itineraria, bensì onoraria e questo aspetto viene ripreso nelle edizioni di nuovi documenti epigrafici. Si rimanda qui a Rathmann 2003, 87-135, che spesso analizza le province danubiane, a Witschel 2017, che nell’ambito delle modifiche all’epigraphic habit verso la Tarda Antichità affronta il tema da un punto di vista generale per l’Occidente romano e da ultimo a Bolle 2019, 53-64. Per ulteriore bibliografia, oltre a Witschel 2017, vd. Vitelli Casella 2019.
    48. In particolare, Mrozek 1998 si sofferma sulle iscrizioni riferite alle realtà cittadine, che sarebbero andate incontro a una brusca interruzione della vita socioeconomica a causa della crisi.
    49. Per il fenomeno del reimpiego epigrafico vd. recentemente Witschel 2017 e Bolle 2019, 99-125, con ampia bibliografia. Sulle modifiche alle forme di autorappresentazione nel III° secolo resta imprescindibile Borg & Witschel 2001.
    50. Emblematica è la situazione delle maggiori città della Venetia et Histria indagata in Witschel 2006.
    51. Da ultimo de Blois 2018, 226-253.
    52. Hekster & Manders 2006.
    53. Manders 2007, ripreso in de Blois 2018, 227-228.
    54. De Blois 2018, 17-20.
    55. Ad esempio, Johne & Hartmann 2008, 1033.
    56. Per precisione va detto che in Dalmazia non correva alcuna parte del limes, ma la si include nel lavoro in quanto riunita in un’unica realtà sovra-provinciale.
    57. Vd. Mirković 2004, 148-155; Gudea 2013, passim. Da ultimo, sull’evoluzione topografica della città Jeremić 2016.
    58. Da questo punto di vista si riscontrano delle differenze tra centri all’interno della stessa provincia, a seconda che si trovino presso il limes o meno. Cfr. il caso di Salla, che nel III° secolo andò incontro a una profonda crisi a vantaggio di città relativamente vicine, ma situate sul fronte e quindi più attrattive economicamente, per cui vd. Redő 2003, 209-210.
    59. Ad esempio, Johne & Hartmann 2008, 1034.
    60. Rizos 2015, 24-32.
    61. Vd. tra gli altri Frézouls 1998; Johne 2006; Brizzi 2012, 367-374, seguito in buona parte da Mecella 2019, 261-272.
    62. L’indagine sulla statuaria di Gehn & Ward-Perkins 2016 non mostra un particolare legame tra questi imperatori e le comunità delle province in oggetto.
    63. Šašel Kos & Scherrer, ed. 2002-2004; Kovács 2014.
    64. Ad esempio, Mitthof et al., hrsg. 2020, in cui particolarmente rilevanti sono i contributi di Poulter e Witschel, che discutono il problema dell’interpretazione dei dati archeologici delle città e i rischi di fraintendimenti.
    ISBN html : 978-2-35613-452-3
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    ISBN html : 978-2-35613-452-3
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    Volume : 31
    ISSN : 2741-1818
    Code CLIL : 3385
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    Comment citer

    Mattia Vitelli Casella, « Continuità in (una) crisi? I motivi di una giornata di studio », in : Mattia Vitelli Casella, (dir.), Continuità in (una) crisi? Casi-studio sulle province danubiane durante il III secolo, Pessac, Ausonius éditions, collection PrimaLun@ 25, 2024, [en ligne] https://una-editions.fr/continuita-in-una-crisi/ [consulté le 11/09/2024].
    doi.org/10.46608/primaluna31.9782356134523.1
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