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Soldatenkaiser: la lunga genesi di una figura

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Chi erano e attraverso quale percorso poterono i Soldatenkaiser giungere al trono ed occuparlo per una stagione sia pure effimera? La loro scalata al potere fu, in realtà, il punto di arrivo di un percorso durato per secoli. Partorito attraverso il lungo e doloroso travaglio delle guerre civili, al termine di quella che una definizione felicissima e ormai canonica ha battezzato come “rivoluzione romana”1, l’impero ne avrebbe conosciuto, oltre duecentocinquanta anni dopo, una seconda, capace di proporre nuovamente, per il trono, l’intermezzo di una breve stagione elettiva.

In effetti l’avvento di Augusto aveva rappresentato l’esito ultimo dell’inevitabile trapasso attraverso il quale, secondo Tacito, omnem potentiam in unum conferri pacis interfuit (Hist., 1.1.1). È stato detto che il termine potentia identifica quasi per antifrasi un valore che si contrappone in qualche modo ad auctoritas, rispetto alla quale designa di solito una forme péjorative2; più ancora, che esso definisce la forza prevaricatrice propria della partie de la noblesse la plus agissante et la plus fermée3. Il fatto stesso di veder concentrata omnem potentiam nella figura del principe catalizza dunque sostanzialmente in lui la summa di quella stessa deteriore energia; sicché nella scelta del termine Tacito sembra implicitamente rifiutare l’auctoritas che per Augusto rappresenta ad un tempo il blasone e la giustificazione del potere attraverso il titolo che gli è stato conferito. Malgrado le sue nostalgie ‘repubblicane’, lo storico è costretto però ad accettare lo Stato nascente, ammettendo che l’assommarsi di tutta la potentia in un uomo solo pacis interfuit; e riconoscendo dunque, benché obtorto collo, che, pur pagata con la perdita della libertas, la pax ha assicurato tranquillità sociale, equilibrio di potere e prestigio tra senato ed equestri e rapporti stabili tra le diverse componenti dello Stato evitando il tragico ripetersi di nuove guerre civili.

Il concetto infine accolto da Tacito era stato tuttavia espresso già decenni prima di lui da un mondo orientale preparato assai meglio di quanto non lo fossero Roma e l’Occidente a riconoscere la realtà della nuova forma di governo, definita di solito esplicitamente come basileía. Assai più smaliziata sul piano politico di quella romana, la cultura ellenistica in particolare aveva percepito in modo chiaro fino da allora la svolta epocale in corso; e aveva intuito l’inevitabile evolversi della situazione. Se nella parte orientale dell’impero già Augusto era definito sebastós (e l’epiteto ha ben precisi risvolti sacrali…), Strabone prima, Filone di Alessandria poi avevano, tra gli altri, postulato prontamente la necessità di un rapporto diretto tra il princeps e il demos, con ciò stesso rimuovendo idealmente del tutto dal quadro istituzionale la componente aristocratica.

Della nuova forma di potere in Roma Strabone parla, in realtà, “non come basileía, ‘monarchia’, ma come prostasía tês heghemonías, che è il massimo sforzo compiuto da un autore di lingua greca per rendere il latino principatus”; e tuttavia classifica poi “la bipartizione dell’impero come relativa non al principe e al senato […], ma al principe e al démos, al popolo”, la stessa diarchia che “si ritrova poco dopo in Filone”4.

Quest’ultimo, in realtà, va addirittura oltre. Anch’egli teorizza (p.es. nel De specialibus legibus) “un rapporto diretto tra basileús” — in lui la definizione è però esplicita e senza infingimenti — “e démos, che prescinde dall’esistenza dell’aristocrazia quale elemento intermedio”5. Precisa poi il suo pensiero che tende ad escluderla da ogni autentica funzione in quanto resa destabilizzante dalle incoercibili ambizioni personali dei suoi singoli membri, e destinata dunque ad essere fatalmente causa ed origine di contrasti intestini. Affermando “il principio che ‘il governo di molti signori non è buono’”, Filone condanna “con fermezza l’aristocrazia”; sicché è secondo lui come “custode della pace (eirenophýlax) e protettore dai mali (alexíkakos)” che Augusto ha potuto innalzarsi a “garante che non si torni a uno stato di endemica guerra civile”6. È precisamente il motivo, sottinteso poi anche da Tacito, per cui si è giunti alla scelta, dolorosa ma inevitabile, di racchiudere e quasi custodire omnem potentiam — la protervia di una classe intera? — sotto il controllo di un solo uomo.

Il trapasso di poteri che ne conseguiva era stato giustificato in maniera trascendente nel nome delle virtù che adornavano il princeps; sicché quelli riportati sul clupeus dedicato pubblicamente ad Augusto nel 26 a.C. sono senz’altro i requisiti che, come è stato detto7, ci si aspetta di trovare in un sovrano; e, nel caso in questione, sono anche – io credo – quelli che al primo imperator avevano permesso di diventarlo. È certo però che nel costruire la base sacrale della sua legittimità in Occidente e non solo l’eirenophýlax aveva fatto del ripristino della Pax e della sua salvaguardia il merito fondante; e, ergendosi quindi come egida contro ogni minaccia interna ed esterna al cospetto di Roma e dell’ecumene, aveva posto in primo piano, alla base stessa del suo potere, il supporto divino ad una personalissima vocazione alla vittoria. Aveva così esaltato, per sé e per i successori, che ne avrebbero fatto un elemento essenziale dell’onomastica, quel titolo di imperator che gli veniva dal possesso degli auspicia; e cioè dal peculiare ed esclusivo rapporto con gli dei.

Malgrado l’imperium fosse stato ormai irreversibilmente trasferito, attraverso la rinuncia a questa prerogativa, dal senatus populusque, da una comunità, ad un uomo, il primo degli ordines privilegiati, la componente senatoria, e in particolare la nobilitas, pur esautorata di fatto, restava nondimeno smaniosa di sentirsi ancora in qualche modo consors imperii, compartecipe di un potere che aveva in realtà perduto, ma continuava, non sempre sommessamente, a rivendicare; un potere rispetto al quale insisteva ad appellarsi a virtù e meriti antichi8. Per poter rendere in qualche modo plausibili le loro istanze i senatori accettarono dunque formalmente di continuare a mostrarsi impegnati a loro volta come in passato nella difesa dello Stato, ostentando di sottomettersi, soli in tutto il panorama politico e sociale del tempo, ad una sorta di servizio militare obbligatorio; che, nel solco del tradizionale munus serviano di impegno verso la res publica, imponeva secondo una tradizione secolare ad ognuno di loro di cominciare il cursus honorum, la carriera politica, con il tribunato militare laticlavio, entrando nell’esercito. Così chiamato dalla larga banda di porpora che ne orlava la tunica, questo tribuno era il solo di rango senatorio tra i sei ufficiali che componevano gli alti gradi delle legioni.

Pur subordinandone ovviamente l’imperium al loro (e, certo, vagliando di persona le designazioni…), i principi non avevano quindi potuto esimersi, dapprima, dal demandare l’imperium in esclusiva come loro legati ai patres; ai quali, dopo il tribunato e dopo la pretura, era affidato il comando delle legioni; e, proseguendo il cursus, il governo delle province armate di frontiera (Germanie e Pannonie, Mesie, Dacia, Siria, etc.) dove erano acquartierate le grandi unità cittadine. Avevano dovuto però constatare ben presto come per molti dei senatori il servizio sotto le insegne andasse trasformatosi in una sorta di burletta o almeno di sinecura.

La crescente riluttanza dell’aristocrazia rispetto alle reali incombenze belliche e ai rischi inerenti era, in realtà, un fenomeno segnalato già in età anteriore alla nascita stessa dell’impero. Già in Cicerone, infatti, troviamo una sorta di sconsolato sfogo rispetto alla scarsa propensione per l’impegno in armi dei giovani nobiles9; non era stato solo per l’orientamento politico di molti tra loro che, dallo scoppio della guerra civile in poi, Cesare aveva scelto di appoggiare la catena di comando ai centurioni, professionisti tratti dai ranghi. Costoro erano in grado di guidare sul campo un esercito ormai di mestiere assai meglio dei legati senatorî: l’infelice prova offerta dai rampolli della nobilitas sul campo di Farsalo non poté che confermare Cesare nella sua scelta.

Ma la situazione andò via via peggiorando. Diversamente dagli altri cinque, angusticlauii, di estrazione equestre, che non solo gestivano vita e addestramento dei legionari, ma ne guidavano davvero contingenti in battaglia10, al tribuno laticlavio erano, in realtà, assegnati spesso compiti meramente amministrativi o gestionali. Alle insegne andava accostandosi sempre più, invece, proprio il ceto dei cavalieri, in parte ormai destinato a mansioni di servizio a disposizione del principe. All’anello d’oro che contraddistingueva gli equites aspiravano costantemente fino dall’età di Augusto proprio i centurioni che, in genere, ricevevano questa distinzione al raggiungimento del primipilato, il grado massimo tra i sottufficiali, promossi grazie per lo più al loro valore; e alcuni —pare— riuscirono ad ottenerlo11. Uno degli sbocchi naturali per questi uomini, così come per tutti i rampolli delle famiglie equestri, era costituito poi dall’accesso alla catena di comando direttamente riservata all’ordine, dunque al primipilato bis12 con la rafferma (che conduceva in prima istanza a sostituire i laticlauii, portava poi a mansioni militari superiori, di assoluto prestigio; …) o alle tres militiae equestres — la prefettura di una coorte ausiliaria di fanteria, il già ricordato tribunato angusticlavio nelle legioni, la prefettura di un’ala di cavalieri13—; una scuola di guerra effettiva, questa, che, ben più valida della sinecura amministrativa rappresentata di solito dal tribunato laticlavio, cominciò presto ad aprire ai migliori equites le prefetture, fino al pretorio, il comando della Guardia imperiale.

Fu forse anche questa realtà a indirizzare un ulteriore mutamento che si verificò sotto i Flavî (69-96 d.C.). Cosa certo comprensibile di fronte al prestigio che la dinastia aveva attribuito da subito al consolato, conobbe infatti una fortuna sempre maggiore il provvedimento riservato da Vespasiano ad alcuni settori eminenti del senato – i membri del ricostituito nucleo dei patricii, i patres di seconda generazione – che permetteva a costoro di passare direttamente dalla pretura al consolato, raggiungibile così a soli trentadue anni di età14; privilegio che finiva però per aggirare, evitandole, le mansioni pretorie, tra cui, importantissima, proprio quella del legato comandante di legione. Come segnis et oblita bellorum era dunque ormai irrimediabilmente sentita da Tacito (Hist. 1.8.2) quell’antiqua nobilitas che sotto questa particolare definizione accomunava forse i senatori dalla seconda generazione in poi e i patricii; i quali, profittando del loro privilegio, cercavano spesso di sfuggire alle insidie di un impegno sul campo. Se già Traiano fu the only patrician […] to be so signalled by Domitian, la scelta dell’imperatore Flavio, che pursued a policy of promoting noui homines at the expense of the nobility15, fu probabilmente almeno in parte dovuta anche alla renitenza di una classe intera; che, dall’età di Pertinace almeno16, sarebbe giunta, con alcuni dei suoi esponenti, al punto di non nascondere ormai nemmeno più la tendenza a ricorrere ad ogni mezzo pur di evitare le insegne. Con tale condotta il senato, la classe che del proprio munus aveva preteso a lungo di fare un blasone e ad un tempo il manifesto di un impegno preciso e costante verso lo Stato, mostrando di considerarlo tuttora res publica e rivendicando perciò stesso il diritto a governarlo in nome del dovere di difenderlo, andava così ormai implicitamente rinunciando al compito più gravoso e insieme più nobile, quello di mettere in gioco la propria vita per il bene comune; e andava perciò stesso irreparabilmente annacquando il significato della propria partecipazione all’agone politico.

Era venuto quindi a verificarsi una sorta di paradosso: a quel senato che in sempre minor numero era in grado di esprimere uomini davvero sperimentati nel comando continuava però a restare riservata formalmente in esclusiva la guida delle legioni e il governo delle province armate imperiali. Intervenire divenne così inevitabile; e si fece ormai apertamente ricorso agli equestri. Prima i comandanti delle unità legionarie, poi i governatori delle province armate imperiali fino al massimo livello, quello consolare, furono dunque reperiti sempre più spesso attraverso l’adlectio17, la cooptazione abitualmente inter quaestorios o inter praetorios, di ufficiali equestri, di cui si favoriva una particolare carriera, tutta nel segno del servizio in armi. Attraverso questo particolarissimo iter uomini emersi talvolta addirittura dai ranghi cominciarono dunque ad approdare prima alle tres militiae, poi al comando delle legioni e al governo delle grandi province militari dell’impero.

Certo, anche a voler dubitare dell’editto con cui, secondo Aurelio Vittore (Caes., 37.6), fu Gallieno che senatum militia uetuit et adire exercitum (33.34), è probabilmente a lui che si deve la definitiva esclusione dei senatori dall’esercito; un fatto la cui attendibilità pare accreditata dalla scomparsa di ogni traccia di legati legionarî dopo la cattura di Valeriano ad opera dei Sasanidi (al regno congiunto di Gallieno e del padre risale l’ultima presenza attestata epigraficamente di un legato senatorio, quella di Vitulasio Lentiniano18). Ma la sua decisione non fu che la presa d’atto di un processo in corso da tempo. Si era cominciato via via, in campo bellico, a privilegiare soprattutto la competenza. I praefecti equestri di alto rango e i legati senatorî erano così tratti ormai progressivamente sempre più non solo dalle province, ma dalle zone militarizzate di frontiera19. Era stata poi l’intera gerarchia ad essere gradualmente ristrutturata e addirittura stravolta. Se da un lato anche i tribuni angusticlauii avevano cominciato ad essere prima surrogati, poi sempre più di frequente sostituiti dai primipili bis, come si è detto ex centurioni raffermati provenienti dai ranghi la cui esperienza sul campo li accreditò infine addirittura della possibilità di scavalcare persino i legati di legione, svolgendo di fatto funzioni di comando sul campo, dall’altro tanto le uexillationes, distaccamenti formati accorpando per compiti specifici singoli contingenti di truppa20, quanto unità intere erano state poste agli ordini di praepositi, primipili bis anch’essi e talvolta addirittura semplicemente primi ordines21. Era poi cresciuta enormemente di importanza la figura del dux: se al praepositus si affidava di solito, in campagna, un contingente inserito in una formazione maggiore, i duces (e, su scala regionale più ridotta, i pro legato…) erano responsabili di exercitus mobili costituiti temporaneamente in vista di campagne od azioni specifiche importanti (e dunque sottoposti a comandi di livello superiore22). Già sporadicamente impiegate durante gli anni precedenti, furono queste grandi formazioni (e non la cavalleria, cui pensa Cassio Dione…) a rivelarsi decisive durante le campagne di Settimio Severo: l’exercitus Illyrici contro Pescennio Nigro, l’exercitus di Mesia contro Postumio Albino, le uexillationes delle quattro legioni germaniche durante la seconda guerra partica23. A volte, addirittura, i duces erano posti a capo di interi settori di fronte (come quello mesopotamico, creato secondo alcuni nel 231/23224).

Se alcuni hanno sottolineato come non tutti i legati consolari del periodo compresi tra i Flavi e i Severi provenissero da una carriera esclusivamente militare25, altri hanno rilevato come la scelta di molti tra i patres di accelerare il cursus raggiungendo in anticipo il consolato finisse comunque fatalmente per escluderli dal governo delle province imperiali, affidato ormai sempre più di frequente a homines novi26.

Fu comunque con i Severi che la situazione venne definendosi appieno27. Già con il fondatore della dinastia gli equestri poterono di fatto essere ammessi direttamente alle cariche del cursus senatorio senza neppur più passare per il vaglio formale dell’adlectio, e poterono persino raggiungere il governo delle grandi prouinciae non pacatae di frontiera (come, di nuovo, avvenne per quella sorta di laboratorio che era la Mesopotamia28); mentre con Caracalla l’estensione della ciuitas a tutto l’impero dovette almeno in linea di principio portare, a causa della scomparsa di fatto degli auxilia (o, almeno, con il loro sostanziale uniformarsi alle legioni), all’abolizione delle tres militiae equestri.

Era andata dunque crescendo nel tempo, accanto ad un senato sempre più neghittoso e imbelle, che aveva i suoi vertici nell’antiqua nobilitas, una seconda aristocrazia parallela, un’aristocrazia di uirtus e non di sangue, formata dai uiri militares: questo il nome con cui li si connota abitualmente. Presenze dapprima sporadiche, che non si richiamavano ad alcun ceto sociale preciso (Tacito gratifica dell’appellativo sia un nobilis di schiatta come Domizio Corbulone (Ann. 15.26.3); sia un equestre appena giunto al latus clauus come Vespasiano (Hist. 2.75.1)), ma si riferivano piuttosto ad una categoria di uomini e alla funzione, direi quasi alla vocazione, cui avevano scelto di votarsi: il mestiere delle armi. Costoro finirono in effetti per porre in essere una sorta di cursus particolare, sovente intermedio: tratti dai ranghi più umili della truppa ed elevati alla condizione equestre per essere ammessi ai livelli più bassi del comando, erano poi stati sempre più di frequente cooptati tra i patres perché potessero raggiungere i vertici dell’esercito e dell’amministrazione militare, altrimenti preclusi.

Se quanti venivano adlecti non potevano ovviamente non essere persone gradite all’imperatore29, sicché la scelta poteva talvolta rispecchiare anche il capriccio del potere, bastano però alcuni nomi soltanto (Ti. Giulio Celso Polemeano, promosso da Vespasiano; Ti. Claudio Quartino e Lusio Quieto adlecti da Traiano; Q. Marcio Turbone da Adriano così come M. Stazio Prisco e Avidio Cassio da Antonino Pio, Elvio Pertinace e Claudio Pompeiano da Marco Aurelio) a sottolineare la qualità, solitamente altissima, dei prescelti e la loro vocazione prevalente. Questa prassi consentì di fatto ai principi la possibilità di immettere in senato i migliori soldati di origine equestre, cui affidare finalmente, fino alle posizioni di vertice, gli eserciti di Roma. Più ancora: ben presto, già con Traiano30, costoro ottennero anche responsabilità di governo nelle province pretorie, una specie di vaglio prima di essere designati31, di solito dopo un rapido consolato in absentia32, alle province imperiali di rango consolare33. Per limitarci a qualche nome soltanto, si possono ricordare, per l’età antonina ad esempio, T. Aterio Nepote e L. Trebio Germano, A. Platorio Nepote e Sex. Giulio Severo, Q. Lollio Urbico, L. Annio Fabiano e M. Antonio Ibero; figure connotate, tutte, da una pregressa esperienza bellica di alto livello che li abilitava a quegli impegnativi incarichi.

Dunque, per formulare un quesito già opportunamente avanzato, who were the uiri militares34? E quali ne furono i caratteri distintivi? Essi debbono essere stati, in primo luogo, quasi sempre degli homines noui; e ad homines noui furono in effetti assegnate in prevalenza, come è stato osservato, i grandi distretti di frontiera. Ma l’opportunità di abbreviare l’iter di cui godeva da tempo un’ormai imbelle antiqua nobilitas evitando gli impegni militari deve aver cominciato ben presto a sedurre, una generazione dopo l’altra, anche i figli degli splendidi soldati che al latus clauus erano giunti invece grazie al senso di sacrificio e alla perizia nelle armi. Chi, nato da loro, aveva raggiunto senza sforzo alcuno i ranghi più alti tra i patres dovette essere tentato di profittarne, rifiutando spesso in primis proprio di seguire la via dei padri, che portava alla dura vita sub signis; ma rese inevitabile, con questa stessa scelta, che la categoria dei uiri militares conoscesse un costante e sistematico ricambio generazionale. Il requisito per così dire genetico dell’aristocrazia, che consiste proprio nella sua capacità di rinnovarsi in nome del merito, veniva dunque a connotare indelebilmente proprio la categoria dei grandi soldati, fino a identificarsi e quasi a coincidere con essa: di tale originario archetipo, dunque, questi uomini furono forse gli ultimi, certo tra i più nobili depositarî.

Essi dovettero però giungere infine a concepire la uirtus come espressione del dovere verso lo Stato; finirono quindi per identificarla con l’impegno, altissimo e vieppiù difficile, di difenderlo e per rivendicare perciò stesso il diritto di governarlo. Fu proprio questa seconda aristocrazia di merito la cui anima aveva preso definitivamente ad emergere durante la drammatica contingenza verificatasi sotto il regno di Marco Aurelio, ad esprimere in seguito, sempre più spesso, le figure destinate al trono. Dai uiri militares, per naturale continuità, sgorgarono quelli che in età moderna sono stati definiti Soldatenkaiser, gli imperatori-soldati; e il criterio di successione cui finirono inevitabilmente per ispirarsi non poteva che essere quello elettivo.

Reso esplicito per la prima volta nel discorso di Galba in Tacito (Hist. 1.16), il principio che prevedeva per il trono la scelta del migliore si era costantemente opposto all’altro, quello che più naturalmente poggiava sull’eredità dinastica35; e si era in apparenza specchiato da sempre in quel Traiano che, come abbiamo visto, era l’optimus per definizione ed era divenuto non a caso l’exemplum ideale, dopo Galba, per un altro senatore insigne, Plinio il Giovane.

Il modello elettivo era stato poi invocato costantemente anche in seguito, fino a riapparire ancora in Cassio Dione e in Erodiano. Sia Plinio nel Panegirico, sia Erodiano stesso avevano tentato mediazioni anche intelligenti tra le due formule. Lo storico greco avrebbe – si è detto36 – mostrato la tendenza a conciliare la nobilitas con la uirtus; anche se per lui fu in realtà, io credo, la seconda a costituire il valore di riferimento, “mentre la nobilitas [era] valutata solo se accompagnata dalla uirtus37. Quanto a Plinio il Giovane, egli implora Giove di concedere al principe… successorem quem genuerit – dunque un figlio – quem formauerit similemque fecerit adoptato… Ove però l’educazione non dia esito, occorrerà procedere alla scelta, questa volta esterna, di un successore quem adoptari in Capitolio deceat (Plin., Pan., 94.5), scegliendo di nuovo come discrimine la uirtus rispetto al sangue. Ma, come vedremo, il nuovo esperimento che, sia pure per pochi decenni soltanto, prese vita sul finire del III° secolo dall’autocoscienza maturata tra i uiri militares, rappresentò il faticoso compromesso all’interno di una conventicola di alti ufficiali. Questa ristretta oligarchia sceglieva a rappresentarla un proprio esponente, ma non poteva assolutamente permettere che costui cristallizzasse il potere rendendolo ereditario.

Ancor più lontano e irrealizzabile era poi il sogno di Cassio Dione, secondo il quale doveva essere optimus non solo il principe, ma anche i membri del senato: chiamati ad incarnare un ideale, costoro dovevano infatti essere a loro volta veramente i migliori, scelti in tutto l’impero non secondo il censo o l’origine, ma secondo il merito38. Con la ‘nuova’ aristocrazia nata dalle armi lo storico bitinico non riesce tuttavia a identificarsi. Persino a Pertinace egli nega infatti una valutazione pienamente positiva: Pertinax agit comme le ferait un ἀγαθὸς αὐτοκράτωρ, ce qui revient à dire qu’il n’en était assurément un non plus39. Se al prode figlio di un libertinus – che, adlectus inter praetorios, si era distinto al comando della legio I Adiutrix – non poteva in alcun modo negarsi la uirtus, Pertinace restava però uno di quei uiri militares la cui carriera, spintasi fin oltre la soglia stessa del trono, infastidiva il senatore bitinico ispirandogli una diffidenza profonda. Ignorava, o fingeva di ignorare però, Cassio Dione, che la uirtus di cui abbisognava il tempo suo non era quella filosofica, ma quella delle armi, che il senato ‘tradizionale’ non sapeva oramai interpretare più40.

Sono trascorsi ormai oltre quarant’anni — era il 1978 — dal momento in cui presi per la prima volta in esame il problema, elaborando, in maniera forse tutto sommato ancora indefinita e addirittura fumosa persino per me, un’ipotesi: le denominazioni di Illyriciani o Soldatenkaiser, a lungo adottate per connotare uno stesso, particolare gruppo di imperatori, saliti effettivamente al trono o semplicemente coinvolti nel vortice di guerre, lotte civili ed usurpazioni che va dal quarto decennio del terzo secolo alla breve, illusoria stabilità dell’età tetrarchica, sono in realtà in qualche misura ingannevoli entrambe41.

Malgrado l’apparenza, il primo appellativo non può – questo sostenevo allora; e di questo sono convinto ancor oggi… – riferirsi, per inquadrare in modo plausibile il fenomeno e collegare il carattere dei protagonisti, ad un particolare etnico ristretto; e neppure —malgrado quanto sembrano credere grandi studiosi quali András Mócsy o Ronald Syme — ad una più vasta dimensione areale. Quale che ne sia l’accezione, Illyriciani non può secondo me richiamarsi plausibilmente né ai termini Illyria-Illyrii, che designano la regione affacciata lungo la costa orientale adriatica e i suoi abitanti; né estendersi a coinvolgere in qualche modo il ben più ampio spazio dell’Illyricum, l’insieme che riuniva in un immenso distretto doganale le province scaglionate lungo il Danubio. Questo secondo ambito era, certo, più famigliare agli occhi dei protagonisti del tempo rispetto alla sbiadita definizione di Illyria, toponimo sostituito ormai dal più consueto Dalmatia; un’area, quest’ultima, che, oltretutto, diede a Roma un solo imperatore, Diocleziano. Ma, anche a voler precisare, come fa Ronald Syme, che the term Danubian is safer42, va precisato innanzitutto che non tutti i personaggi ricollegabili a questo particolare gruppo di imperatori sono di origine sicura; incerti e problematici restano infatti caratteri e provenienza non solo dei più evanescenti tra i Tyranni triginta, la cui esistenza è in alcuni casi addirittura revocata in dubbio, ma anche di figure assai più solide e definite come quelle dell’usurpatore Ingenuo o dei generali Eracliano, Traiano Muciano, Cecropio. In questo gruppo si inseriscono poi nativi della Dacia (Regaliano e Aureolo) o della Mauretania (Emiliano); Italici (oltre a Valeriano e Gallieno, Treboniano Gallo e probabilmente Tacito e Floriano) od oriundi della Gallia (Pacaziano), e più specificamente della Narbonensis (Caro e i figli, Carino e Numeriano); nonché, dulcis in fundo, Dalmati (Diocleziano).

La denominazione di Illyriciani si presta invece a consentirci di classificare questa particolarissima identità sotto un altro esponente. Interamente composto (tranne che per le figure, in certa misura particolari, di Gallieno e forse Floriano…) da altissimi ufficiali di mestiere, restituisce infatti per quasi tutti loro il ricordo del servizio in armi e delle funzioni prestate in qualche modo nell’area danubiano-balcanica; e soprattutto – almeno secondo me – registra per essi la particolarità di avere raggiunto il vertice delle rispettive carriere presso il comando straordinario impiantato da Filippo l’Arabo nella base di Sirmium, in Pannonia Inferior.

Ma veniamo al secondo termine. La vasta opera di trasformazione delle strutture militari romane messa in atto a partire dall’età di Settimio Severo avviò, secondo Leandro Polverini, una serie di mutamenti destinati a porre in atto una sorta di vero e proprio rivolgimento, una “‘seconda’ rivoluzione romana”43, che portò al trono in successione una serie di Soldatenkaiser, di imperatori soldati. Si trattò di un processo la cui genesi lo studioso attribuisce però alle “motivazioni… più profonde, ma a noi sostanzialmente ignote”44, delle masse militari, senza dunque proporre una vera risposta al problema del suo insorgere e senza trovare alcuna spiegazione più sicura da dare agli eventi della “logica — detto per antifrasi… (!)— delle guerre civili”45, riducendo tutto al capriccio passeggero e volubile dei soldati danubiani.

Da entrambe le interpretazioni dissentivo dunque almeno in parte. Certo, è la tesi di Polverini (e di Altheim) quella cui mi sento più vicino; anche se, in realtà, i soldati di truppa furono solo il mezzo per un esperimento avviato nel ‘laboratorio’ di Sirmium dai loro vertici militari. Se indiscusso rimane infatti il peso esercitato da masse di uomini che costituivano allora il gruppo di armate di gran lunga più formidabile dell’impero (secondo Marco Aurelio, rispetto alle guarnigioni danubiane, a lui rimaste fedeli, le truppe orientali, pur numerose e ben guidate da Avidio Cassio, non erano che colombe o cerbiatti opposti ad aquile o lupi46), queste sembrano essere state manovrate dai comandi e non avere, in fondo, rappresentato davvero interessi regionali. Le guarnigioni costituivano infatti ormai, rispetto alle province che erano chiamate a difendere, un corpo sociale a sé stante, fiero di una situazione di privilegio resa enormemente più solida dalle riforme di Settimio Severo e di Caracalla, che avevano triplicato gli stipendia dei soldati, garantivano loro donativi continui e li avevano assorbiti nel rango degli honestiores. Riesce dunque difficile pensare ad un coinvolgimento delle truppe danubiane nelle istanze e negli interessi dei territori presidiati. Se a dimostrare questo rapporto mancano quasi completamente gli indizî, paiono al contrario essere attestati, da parte di truppe che tendevano talvolta ad approfittare delle popolazioni locali, episodi forse non infrequenti di abuso, come quello ricordato dall’iscrizione di Scaptopara47. Dovettero mancare a lungo, infine, sia gli opportuni contatti tra le diverse unità; sia, forse soprattutto, la necessaria “qualificazione politica”48 tra i ranghi inferiori.

Quella di cui parla lo studioso italiano fu dunque, di fatto, davvero una “rivoluzione”, ma guidata dall’alto; un rivolgimento che finì da ultimo coll’imporre, per l’accesso al trono, il criterio elettivo, la scelta del migliore posta in atto però all’interno di un ambito ben preciso. Ciò che per decenni consentì di riorientare ogni volta la condotta da parte delle truppe, propense di solito, nei ranghi inferiori, a privilegiare il principio dinastico, più immediatamente percepibile49, fu l’istituzione del comando di Sirmium. La decisione, presa da Filippo l’Arabo, rispondeva ad un generale, necessario cambio di strategia. Se la logica dell’organizzazione per province armatae era stata superata già con l’istituzione degli exercitus mobili di età severiana come strumento di manovra e di attacco, ora la nuova situazione alle frontiere, fattasi assai più minacciosa che in passato, obbligava a rimuovere il fattore di fragilità strategica più grave che per secoli aveva afflitto l’impero: il frazionamento dei comandi progettato perché, in condizioni ordinarie, questi si controbilanciassero l’uno con l’altro, scongiurando pericolose tentazioni di scalata al potere da parte dei singoli governatori. Una cautela in larga misura politica cedeva così il passo alle nuove, ineludibili istanze di difesa: si riunirono abitualmente più province, e si coagulò addirittura, sotto un’unica gestione anche militare, questo immenso distretto di frontiera. Se nel caso dell’Illyricum l’istituzione del comando unificato fu una scelta imposta dall’alto, la validità della nuova linea strategica si affermò tuttavia spontaneamente ovunque solo pochi anni dopo, con la divisione nei ‘tre torsi’ dell’impero; una linea che prefigurava il futuro dissolversi kat’éthne della compagine romana.

Il nuovo, vastissimo settore di fronte, la cui azione dovette essere coordinata centralmente, finì comunque col prefigurare l’esistenza di una sorta di stato maggiore permanente; un organismo votato infine ad agire come una vera e propria ‘giunta militare’. Questa ebbe da un lato, e mantenne a lungo di fatto ai suoi ordini, le migliori forze di Roma grazie alle quali sostenere i pretendenti al trono emersi al suo interno, dispose dall’altro del tempo necessario a riflettere sul da farsi; e, come credo, cercò infine di elaborare una soluzione anche politica alle difficoltà che travagliavano l’impero.

Gli anni difficili intercorsi tra la creazione del comando ad opera di Filippo l’Arabo (247/248) e l’avvento di Gallieno50, videro, per l’assenza di un accordo tra i generali operanti nel settore, la rapidissima (248-253) successione di ben sei tra imperatori e pretendenti (lo stesso Filippo, Marino Pacaziano, Decio, Treboniano Gallo, Emilio Emiliano e Valeriano), tutti, tranne l’ultimo, periti di morte violenta. Fu il ben più solido ed abile Gallieno a cercare una soluzione al problema. Deciso ad eliminare la minaccia rappresentata verosimilmente non da un gruppo di armate riottose, ma da un pericoloso nodo alternativo di potere, il sovrano soppresse il comando illirico; rassegnandosi però a soggiornare a lungo stabilmente di persona nella regione, forse fino al 255/56 per controllare un fronte la cui responsabilità temeva evidentemente di delegare51. Quando la pressione di Franchi e Alamanni sul Reno lo costrinse ad allontanarsi, cercò di risolvere il problema sperimentando proprio qui il principio dinastico coll’affidarne l’incombenza al giovane Cesare Valeriano iuniore52; decisione improvvida, che portò alla scomparsa del giovane principe, probabilmente assassinato53. Tornato qui, dopo avere prima sconfitto l’usurpatore Ingenuo, Gallieno soggiornò ancora a lungo (259/260?) in Illirico54, trionfando di una serie di altri pretendenti (Regaliano, Macriano e Quieto); e seppe frattanto creare sia un importante exercitus di manovra, capace di garantirgli la vittoria sul campo55, sia il corpo dei protectores, un nuovo organismo che riuniva un gruppo di altissimi ufficiali teoricamente preposto alla sua sicurezza56. Misure che ne prolungarono il regno (268), ma non valsero a salvargli la vita: Gallieno cadde vittima infatti di una congiura cui presero parte sicuramente Marciano, alto esponente lui stesso dei protectores e poi dux e stratelátes, comandante in capo delle truppe illiriche57; Eracliano, il prefetto al pretorio; Cecropio, forse l’esecutore materiale del delitto. Ma, soprattutto, i suoi due immediati successori: Marco Aurelio Claudio e Lucio Domizio Aureliano.

Evidentemente in seno alla conventicola di altissimi ufficiali operanti nel settore si erano infine stabilite delle priorità; ed è mio parere che i due designati, Claudio II appunto e Aureliano, grandissimi soldati entrambi, fossero stati scelti per succedersi e durare. Così non fu: il primo morì di peste dopo appena due anni di regno (270), il secondo cinque anni appresso, vittima – sembra – di un delitto privato58.

Il progetto coltivato probabilmente con Claudio e Aureliano parve dunque per un attimo esaurirsi qui. Tacito era un vaso di coccio scelto dal senato in assenza di un successore; e il suo fu una sorta di infelice interregnum59. Uerae libertatis auctor per i colleghi del senato, questo nobile e ricco Italico era tuttavia troppo anziano per essere un sovrano autentico, e restava ostaggio degli alti comandi: quando cercò di imporre ai vertici la presenza di uomini a lui vicini, le truppe lo uccisero. Perì, poco dopo, anche il fratellastro Floriano (276). Non miglior sorte ebbe Probo, un grande soldato che però forse non amava l’esercito, come sembra suggerire la monetazione del 281, intitolata a Pax, o l’utopica speranza, a lui attribuita, che si potesse in poco tempo fare a meno dei soldati60, sogno probabilmente poco gradito ai soldati stessi. Gli riuscì infine fatale la pretesa di impiegare le truppe in lavori agricoli: costretti alla bonifica di una palude, queste, infatti, lo uccisero non lungi da quella Sirmium in cui era nato e che continuava ad essere il centro militare dell’impero.

Resta l’ultimo periodo. M. Aurelio Caro, prefetto al pretorio di Probo e suo e successore, che aveva mosso guerra ai Persiani ed era proteso forse verso una vittoria in Mesopotamia, incontrò presso Ctesifonte una morte misteriosa (luglio 283), per la quale le fonti (SHA., Car., 8.2, 7) parlano di ictus fulminis o di malattia, ma è legittimo il sospetto di omicidio. Il figlio minore Numeriano, che aveva assunto il titolo di Augusto, seguiva la ritirata da una lettiga afflitto da una dolorosa oftalmia; e aveva dato l’ordine di non essere disturbato e di lasciare chiuse le tende che lo isolavano dalla luce. Qualche giorno dopo, tuttavia, l’odore della decomposizione ne denunciò la morte; e di un omicidio forse non commesso venne accusato Arrio Apro61, suocero e prefetto al pretorio dell’imperatore, il solo che fosse formalmente ammesso a vederlo. A giustiziare Apro di sua mano fu un ufficiale dalmata, Valerio Diocle, capo dei protectores, subito acclamato al trono dalle truppe.

Lo scontro risolutivo con l’altro figlio di Caro, l’energico Carino, rimasto a custodire l’Occidente, avvenne in Mesia, nella valle del fiume Margus (Morava); e, benché vittorioso, Carino fu ucciso da uno dei suoi ufficiali. Il movente di costui, l’avergli il sovrano sedotto la moglie, sembra un mero pretesto, l’ultimo dettaglio di un ritratto ufficiale teso ad infamare Carino. La verità era probabilmente un’altra. Dopo un interregnum più lungo di quanto le fonti non dicano, gli alti comandi dell’esercito, e in particolare gli ufficiali da tempo gravitanti attorno alla piazza di Sirmium, avevano finalmente scelto il successore di Aureliano: a Carino aveva probabilmente nuociuto ancora una volta l’esser egli espressione del principio dinastico. Era l’aprile del 28562.

In grado di portare al trono i propri candidati, le armate danubiane potevano però essere agevolmente ricondotte ogni volta all’obbedienza dalla élite militare che continuava a mantenerne il controllo. I sovrani emersi dai ranghi dovevano però evitare ad ogni costo sgarbi verso l’organismo che li aveva sostenuti e rispettarne volontà ed interessi, evitando di porsi in contrasto con esso. In particolare, un gesto dovette apparire intollerabile sempre agli Illyriciani: il tentativo da parte di chi raggiungeva il trono di dar vita ad una propria dinastia. Chi aveva, non sempre di buon grado, accettato di cedere il passo ad un collega più eminente o più anziano non poteva infatti in alcun modo consentire di vedersi ulteriormente scavalcato nella successione da un figlio dell’eletto. Sottoposto al vaglio geloso di una ‘giunta militare’ al cui interno le aspettative erano molteplici e di necessità ineludibili, il criterio elettivo ‘esterno’ alla famiglia regnante non ammetteva più eccezioni di sorta; e, di fronte al naturale ma improvvido istinto mostrato da molti imperatori del tempo di perpetuare il proprio potere, fu non il capriccio delle truppe, ma la longa manus degli alti comandi ad eliminare coloro che gli Illyriciani stessi avevano portato alla porpora.

Questi uomini furono dunque Soldatenkaiser perché espressero le istanze e persino le ubbìe di una élite di ufficiali, anche se governarono le masse militari in luogo di esserne governate. Furono Illyriciani non perché dell’Illyricum fossero obbligatoriamente nativi, ma perché qui, nel grande distretto militare, erano le radici del loro potere. Furono, infine, restitutores; e non solo perché una schiatta di generali che non ha nulla da invidiare ai celebri comandanti dell’ultima repubblica seppe risollevare militarmente le sorti vacillanti dell’impero; ma perché, oltre ad impegnarsi per garantire un più agevole governo, tentarono – prima con Claudio II e con Aureliano, poi in modo più organico con la tetrarchia – di elevare a sistema il criterio di successione elettiva, garantendo per oltre mezzo secolo ai membri del nuovo gruppo dirigente dei militari la gestione diretta del potere e la successione dell’optimus e cercando infine di assicurare un regolare e pacifico ricambio al vertice.

L’opera di Diocleziano non ebbe dunque, secondo me, connotati rivoluzionari; non almeno nel senso che si dà di solito a questo termine. Puntò invece a consolidare una volta per tutte preesistenti e finora provvisori schemi di governo. “C’[era] da salvare una realtà che egli considerava più grande di ogni altra cosa: lo Stato romano. Le guerre civili avevano sconvolto questo Stato. Ma Diocleziano pensava che se ne potessero eliminare, se non le ragioni, almeno le conseguenze disastrose. […] Al centro della grande costruzione [era] l’autorità imperiale: bisogna[va] sottrarla al capriccio soldatesco di un momento”63, potenziando ed elevando a sistema quel criterio di scelta dell’optimus che per il più autentico sentire romano restava ancora la sola ragione eticamente capace di legittimare il potere. Diocleziano curò, certo, di creare un alone mistico; attorno però non tanto alla persona del sovrano quanto all’istituzione stessa, e in forme che, non a caso, si richiamavano “al concetto augusteo dell’auctoritas [e], forse ancora più indietro […] alla felicitas di Silla”64. È significativo che la figura da lui assunta a simbolo sia stata proprio quella dell’eroe repubblicano tale evidentemente lo sentirono in fondo gli antichi – che era stato capace di abbandonare il potere dopo avere restaurato le strutture della res publica. Quando si ritirò Diocleziano lo fece “ad Aspalathos (Spalato), in quella sua celebre villa-fortezza, deciso veramente (il modello di Sulla può avergli sorriso) alla grande rinunzia”65.

Come, non senza arguzia, nota lo stesso Mazzarino, Massimiano Erculio rimase, però, “alle vicinanze di Roma, in una sua villa tra Lucania e Campania (nel Salernitano?). Forse, chissà, qualcuno gli avrà detto che anche Sulla si era fermato, dopo l’abdicazione, in una villa di Campania a sorvegliare ancora… Certo, Massimiano Erculio voleva ‘sorvegliare’, anche lui”66. Purtroppo sono quelle come quest’ultima, tenacemente attaccate al potere, le figure nelle quali è più frequente imbattersi; sicché accade anche che dall’istituzione, l’imperium, l’alone sovrumano trasmigri ben presto agli individui.

Fallirono, infine, questi uomini; e non solo nella fase iniziale, quando nuova aristocrazia non di nascita o di ricchezza, ma di uirtus, furono sopraffatti dall’ambizione personale e avviarono – in ciò Strabone e Filone di Alessandria erano stati, secoli prima, assolutamente intuitivi e si rivelavano ora presaghi – una nuova età di guerre intestine, ma anche nell’esperimento finale, che si richiamava a Silla, e come quello sillano non aveva speranza di riuscire. Come ogni altra in precedenza, anche la concezione tetrarchica non sfuggì ad una grave debolezza, per così dir congenita al sistema, perché connaturata agli uomini. È certamente vero che l’autentico rivoluzionario fu Costantino, ad opera del quale nacquero tutte le successive strutture del Tardo Antico. È vero che fu lui ad assicurare il trionfo del principio dinastico, ancorandolo ad una perfetta e capillare burocrazia e trasformando l’esercito; e, più ancora, che fu lui a garantire il sostegno alla futura teocrazia appoggiandosi per la prima volta risolutamente al Cristianesimo.

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    2. Hellegouarc’h [1963] 1972, 443.
    3. Hellegouarc’h [1963] 1972, 241.
    4. Zecchini [1997] 2012, 80.
    5. Zecchini [1997] 2012, 85.
    6. Zecchini [1997] 2012, 86.
    7. Zanker 1989.
    8. Gabba 1995.
    9. Cic., Font., 42: Quid… est faciendum studiis militaribus apud iuuentutem obsoletis?
    10. Dig., 49.16.12.2. Sul tema vd. Cagnat 1904; Le Bohec 1993.
    11. Devijver 1995.
    12. Dobson 1974; Dobson 2000.
    13. Jacques & Scheid 1992; Devijver 1995.
    14. Eck 1974; cf. Alföldy 1977.
    15. Bennett 1997, 25.
    16. SHA, Pert., 9.6.
    17. Saxer 1967; De Blois 1976; Brizzi 2004, con ulteriore bibliografia; Rocco 2012. Cf. Christol 1986.
    18. CIL, VII, 107. Vd. Rocco 2012.
    19. Birley A. R. 1981; Rocco 2012.
    20. Saxer 1967.
    21. D. 9200; CIL, X, 5829 = D. 2726.
    22. Gilliam 1941; Smith 1979.
    23. Le Gall & Le Glay 1987; cf. Le Bohec 1993.
    24. Così Gilliam 1941.
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    49. Brizzi 2004.
    50. Zos. 1.19.2, 20.2.
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    52. Mócsy 1974.
    53. Mócsy 1974; Christol 1975.
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    60. SHA, Prob., 20.3: Brevi milites necessarios non futuros.
    61. Brizzi 1978.
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    Comment citer

    Giovanni Brizzi, « Soldatenkaiser: la lunga genesi di una figura », in : Mattia Vitelli Casella, (dir.), Continuità in (una) crisi? Casi-studio sulle province danubiane durante il III secolo, Pessac, Ausonius éditions, collection PrimaLun@ 25, 2024, [en ligne] https://una-editions.fr/soldatenkaiser-la-lunga-genesi-di-una-figura/ [consulté le 11/09/2024].
    doi.org/10.46608/primaluna31.9782356134523.3
    couverture de l'ouvrage Continuità in (una) crisi?
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