Ai fini di un lavoro complessivo, ancora in corso, sulle anfore riminesi, sono stati presi in esame ventisei scavi urbani1; lo spoglio ha interessato alcune delle maggiori domus, mentre sono state escluse le necropoli. Le anfore sono presenti in tutti i siti con percentuali abbastanza alte, indipendentemente dalla collocazione urbanistica e dalla cronologia (figg. 1-2).
Rimini era ubicata alla confluenza di aree altamente produttive, lungo un tratto di costa centrale per lo smistamento delle merci in arrivo dal mare: il porto era attrezzato e organizzato per la redistribuzione delle merci e delle derrate nell’immediato entroterra e lungo le coste, la cui risalita avveniva prevalentemente tramite navigazione di cabotaggio. La romanizzazione dovette essere precoce e agì forse, prima ancora che sul tessuto urbano, sul territorio agricolo e sulla sua organizzazione, fondiaria e colturale: lo sviluppo dell’agricoltura e la crescita dei prodotti agricoli imposero ben presto la necessità di mercati in cui collocare le eccedenze, in particolare il vino, favorendo così probabilmente le prime produzioni di anfore greco-italiche, come bene lo documenta la discarica di Cattolica. Il carattere marinaro di Ariminum, inoltre, consentì e rese attuabile l’approccio all’Adriatico2 da parte di Roma: la fondazione di questa colonia non fu dunque dettata solo dalla necessità, per l’Urbe, di un più agevole accesso alla Cisalpina, creando un terminale per i percorsi viari di terra; alla base dovettero agire anche interessi di natura commerciale. La scelta di Rimini e della sua posizione geografica lungo la rotta che giungeva al Po da Ancona, attraverso lo scalo intermedio di S. Marina di Focara3, utilizzando all’occorrenza la navigazione endolagunare, va dunque forse letta quale interesse a questo sistema di traffici e di relazioni commerciali. E potrebbe non essere del tutto casuale il fatto che le prime e più antiche produzioni di contenitori per il vino della Romagna orientale (greco-italiche prima, Lamboglia 2 poi) siano state impiantate proprio a ridosso dello scalo di Focara.
Un altro dato costante per tutta la regione fino al III secolo d.C. è la straordinaria diffusione, in pianura e nelle prime pendici collinari, di fornaci al servizio dell’edilizia e delle attività agricole. Se per quasi tutta l’età repubblicana gli impianti appaiono ancora abbastanza sparsi e a ridosso della costa, dalla fine del I secolo a.C. fino al III secolo d.C. essi si infittiscono, assumono proporzioni e caratteri produttivi assai più articolati, si spostano un po’ più all’interno, pienamente dentro l’agro centuriato, in rapporto diretto con le aziende agricole. L’esame delle fornaci è purtroppo il più delle volte limitato ai soli forni, gli unici rinvenuti e/o riconosciuti, per cui sfuggono caratteri e tipo di impresa che li sostengono; e tuttavia, alcune considerazioni possono essere fatte. Sulla base dei rinvenimenti di vasche e di grossi scarichi ceramici, si è a lungo ritenuto che le prime fornaci a Rimini fossero dentro la città e che solo a partire dall’età augustea la necessità di dilatare spazi residenziali e impianti le avesse spostate extra moenia. In realtà, le produzioni urbane erano limitate a prodotti di lusso o imitanti i prodotti di lusso, mentre le officine per l’opus doliare dovevano essere sin dalle origini nell’agro, sebbene ancora prossime alla costa o, come a Cattolica, a ridosso dell’approdo costiero4. Quelle della città erano probabilmente piccole botteghe artigiane di cui sfuggono i contorni, così come sfuggono quelli delle proprietà e delle officine dell’agro: presso le fornaci di Ca’ Turchi, a Cesenatico, è stata ipotizzata una villa, mentre a Cattolica geografia e caratteristiche geologiche del suolo farebbero escludere la vicinanza di un edificio rustico, di cui non sono state trovate tracce.
A partire dall’età augustea, all’interno di alcune aziende agricole, vennero costruite fornaci in qualche caso addirittura contigue all’impianto di spremitura come a Ronta di Cesena5; una connessione va forse presunta per Riccione (località Piada d’Oro)6 e, presumibilmente, per Santo Marino di Poggio Berni7. Sono tuttavia numerosi anche gli edifici rustici in cui sono state rinvenute strutture per la spremitura ma non fornaci come a Riccione8, a Villa Verucchio9, alla Nuova Fiera di Rimini, dove erano vasche, torculares, doli interrati; questi complessi dovevano provvedere a colture significative e forse estensive, ma non alla fabbricazione dei contenitori.
Alle soglie del I secolo d.C. si affermarono i due centri produttori per eccellenza di anfore, con diversi impianti sparsi per tutto l’attuale territorio urbano: Santarcangelo e Forlimpopoli. A Santarcangelo sono numerosissime le fornaci, ma ancora rarefatte le tracce dell’abitato; intorno, un fittissimo insediamento agricolo, con un appoderamento di piccole e medie dimensioni. Nell’impianto della Lottizzazione Spina è stata rinvenuta una struttura presumibilmente chiusa, che poteva essere utilizzata anche per l’accoglienza dei figuli. Non si può escludere che nelle fornaci venisse impiegata parte della manodopera della campagna: la contiguità, a Ronta, tra fornace e torcular dimostra infatti che trattandosi di attività stagionali, si sarebbero potuti impiegare nelle officine gli stessi uomini della campagna, probabilmente guidati da un “mastro fornaciaio”. Non va poi trascurato il fatto che nelle fornaci, comprese quelle dell’opus doliare, venivano spesso impiegate le donne, e questo avrebbe potuto rendere più agevole la contemporanea attività nei campi e nell’artigianato ceramico. A Santarcangelo gli scavi di Via Vicina Contea10 hanno portato alla luce una situazione analoga a quella di Ronta di Cesena: un grande complesso agricolo collegato ad un enorme impianto di fornaci e da quello diviso da una strada glareata adatta al passaggio dei carri.
A Forlimpopoli il grande impianto di via della Madonna sembrava suggerire una soluzione simile a quella ipotizzata per alcuni dei complessi di Santarcangelo: non sembra casuale l’ubicazione di questa grandissima fornace ai piedi della collina di Bertinoro, ancora oggi celebre per l’intensa viticoltura.
Anfore vinarie
Greco-italiche
Pari al 12,4% dei contenitori di Rimini11, si contano 146 frammenti di orli e fondi, cui si aggiungono almeno 35 anse. L’alta frammentarietà limita l’attribuzione certa rispetto alle tipologie di riferimento, ma prevalgono il tipo A1 della Will12/ MGS V di Vandermersch13 tra gli esemplari più antichi, e il tipo Will D per taluni più avanzati; le maggiori corrispondenze sono con i tipi di Adria14. Interessanti sono anche i confronti con il relitto della Secca di Capistello15, cui sembrano richiamarsi più strettamente alcuni orli. 45 frammenti paiono attribuibili a produzioni locali, specificamente cattolichine; gli altri sono forse di importazione, anche se non si può escludere per alcuni una pertinenza genericamente adriatica. Anfore greco-italiche sono numerose in Via Sigismondo, Palazzo Massani, Palazzo Diotallevi, Ex Vescovado ed ex Ospedale: a differenza di quanto si registrerà in seguito, in tutti i siti le anfore di importazione prevalgono con un rapporto 2/3 su quelli locali. Negli altri scavi, le presenze sono rarefatte o si limitano ad una unità, ma coincidono gli impianti più antichi e si concentrano nel settore gravitante verso il porto.
Molti degli impasti esaminati sembrano pertinenti ad ambiente genericamente tirrenico e più specificatamente tirreno-campano, a conferma degli scambi e delle relazioni via mare con quei territori e con quelle città da tempo ipotizzati per Rimini tra la fine del IV e la prima metà del III secolo a.C.; progressivamente, i tipi di produzione adriatica divengono più abbondanti, senza tuttavia una flessione negli arrivi dalle regioni campane, mentre a partire dal II secolo a.C. si individua una riduzione degli apporti più lontani a vantaggio di prodotti di aree limitrofe.
Una parte rilevante ma non cospicua dei frammenti trova confronto diretto con le greco-italiche di Adria; le produzioni di Cattolica16 sono sicuramente presenti in almeno otto siti; a Palazzo Massani, ben12 frammenti sono databili al III secolo a.C., mentre a contesti della seconda metà del III-inizi II secolo a.C. sono pertinenti due frammenti dell’Ex Ospedale e altri da Via Sigismondo e da Palazzo Diotallevi. Lo scavo di Cattolica rimane per ora l’unico riferimento cronologico per la produzione locale di greco-italiche: se il riempimento della struttura cattolichina coincise anche con la cessazione di questa produzione o fu solo conseguente alla necessità di sistemazione di quella piccola area non è al momento precisabile, né a questo si è in grado per ora di rispondere sulla base dei rinvenimenti riminesi di ambito urbano.
Nessuno dei frammenti di greco-italiche rinvenuti a Rimini è bollato; solamente un orlo da Palazzo Massani reca un graffito di tipo numerale (fig. 3).
Lamboglia 2
La successiva fase di produzione è rappresentata dai contenitori vinari Lamboglia 2, i cui impianti noti erano a ridosso della costa. Lo scarto di cottura della Vallugola, alle spalle di Cattolica, sebbene non abbia per ora trovato il supporto di altri rinvenimenti, parrebbe indicare una continuità figulinaria in questa parte, ma l’unico sito per ora individuato resta Cesenatico17, dove in località Ca’ Turchi furono rinvenuti due grandi forni attivi tra la metà del II secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C., la cui produzione si avviò con le Lamboglia 2; l’orlo è a fascia più o meno inclinata e presenta un incavo interno all’attacco del collo, l’argilla è rosata, estremamente polverosa e tenera, come in quasi tutti i prodotti della regione. A Rimini le Lamboglia 2 sono attestate soprattutto nei livelli dell’avanzata età repubblicana e protoimperiale, in linea con la situazione generale della Cisalpina.
A causa della grande frammentarietà, il conteggio si è limitato ai reperti identificabili con buona sicurezza: in totale, 170 frammenti, pari ad oltre il 14% delle presenze; le aree di rinvenimento sono circa coincidenti con quelle delle greco-italiche, e molto simili sono anche i rapporti quantitativi. Un discreto numero di orli, a fascia bassa e molto inclinata, a sezione triangolare o circa triangolare, è pertinente alle produzioni più antiche, della fine del II secolo a.C.; non mancano orli riconducibili a produzioni pugliesi e soprattutto a fabbriche del Piceno: un gruppo di frammenti da Via Sigismondo18, per caratteristiche morfologiche e dell’impasto, è probabilmente assegnabile alle produzioni di Cologna Marina19. Anche a Rimini è evidente la progressiva trasformazione degli orli, sempre più rettilinei e a sezione quadrangolare, secondo uno schema che accompagna e in parte precede il passaggio alle produzioni delle Dressel 6A: in qualche caso, si riconoscono analogie con i tipi di Fosso S. Biagio20 (gruppo 7B della Bruno21); molti impasti sono simili a quelli delle fabbriche locali, per cui si può supporre che fossero attivi anche altri impianti oltre a quello di Cesenatico, l’unico al momento noto.
I bolli sono quasi del tutto assenti; fa eccezione un unico esemplare rinvenuto a Palazzo Massani, che reca su un’ansa, entro cartiglio rettangolare con scritta in lettere piccole, in rilievo, e P con occhiello aperto, il bollo PERIGE22, già noto a Vercelli su ansa di Lamboglia 2 e a Roma23; lo stesso bollo, con caratteri epigrafici simili a quelli di Vercelli, è venuto in luce ad Aquileia24: l’esemplare riminese ha caratteri analoghi. La sezione quasi circolare dell’ansa aveva posto dei dubbi, per Vercelli e per Aquileia, circa la reale pertinenza a Lamboglia 2, che invece è certa per il frammento riminese, che conserva collo, orlo e parte dell’ansa, a sezione ellittica.
Un’altra porzione di Lamboglia 2 da Via Sigismondo reca sul collo un graffito numerale (Testa) Pondo CMXII; il valore, pur molto alto, potrebbe essere compatibile con una indicazione di peso lordo.
Dressel 6A
Complessa è, per la Romagna, la questione circa la produzione di questi contenitori: la fitta diffusione e la distribuzione quasi capillare dei rinvenimenti, in tutto il riminese, induce a ipotizzare impianti per la fabbricazione di Dressel 6A, ma al momento non sono state identificate officine; vi è tuttavia menzione di fornaci a Cesena, a Brisighella e a Faenza. A Rimini, il numero dei frammenti rinvenuti è alto (215, cui vanno aggiunte 125 anse), distribuiti su 11 siti residenziali, con punte nelle domus di Palazzo Massani e di Palazzo Diotallevi; a questi numeri si aggiungono i dati, altrettanto abbondanti, riscontrati a Riccione-S. Lorenzo in Strada e a Cattolica: nel riminese, di solito, il rapporto tra produzioni locali e rinvenimenti è sempre in un senso; le anfore con percentuali alte sono quelle fabbricate localmente.
Tra gli orli di Dressel 6A rinvenuti, si riconoscono alcuni raggruppamenti: un primo nucleo, di incerta attribuzione, mostra evidenti caratteri di forma di passaggio dalle Lamboglia 2; in alcuni orli da Palazzo Massani sono indubbie le relazioni con le produzioni basso/medio adriatiche, in particolare picene e specialmente con Fosso San Biagio25 (ultimi due decenni del I secolo a.C.), ma appare molto interessante anche un confronto con Parma: le argille vanno dal rosa all’arancio al rosso mattone, per lo più molto dure o durissime; gli inclusi sono prevalentemente grigi, spesso bianchi, talora anche neri; costante è inoltre un ingrossamento interno dell’orlo. Frequenti sono, tra i frammenti di Palazzo Massani, i confronti con esemplari modenesi e con molti siti della Cisalpina, sebbene le analogie maggiori si riscontrino con alcune Dressel 6A riccionesi in corso di studio, recanti il bollo HERENNIA26. Un altro nucleo abbastanza numeroso si distingue per le caratteristiche dell’argilla, che appare polverosa in superficie dove il colore è beige-rosato, mentre in frattura si presenta rosa-aranciato; l’impasto è duro, abbastanza depurato, con calciti sparse e inclusioni grigie e minute ed altre fini, brillanti; alcune somiglianze sembrano ricondurre questi frammenti alle anfore di Sala Baganza, nel parmense.
Gli arrivi, a Rimini, coprono dunque gran parte delle produzioni note; dal punto di vista morfologico, è documentato l’intero processo evolutivo, dai primi tipi di transizione, poco distinguibili rispetto alle Lamboglia 2, alla Dressel 6A classica fino alle più recenti. Le aree di provenienza, pur diversificate, sono distribuite soprattutto tra il Piceno e il settore orientale della X Regio; furono probabilmente consistenti anche gli arrivi dall’Emilia.
È su Dressel 6A la maggior parte dei bolli rinvenuti a Rimini, pertinenti ad un unico gruppo da Palazzo Massani, e tutti dalla stessa US (4099). I bolli27 sono una decina, in gran parte degradati ed evanidi, illeggibili o di difficile lettura:
Bollo entro cartiglio rettangolare posto sull’orlo28 con lettere a rilievo poco emergente SẠ[-–-]; non si esclude S in chiusura. Tra le ipotesi, che si tratti di Safinia Picens/na; sarebbe questo il primo caso a Rimini, ma il personaggio è noto in tutta la Cisalpina e non solo: a Modena, Este, Altino, Verona, Novara, Padova, Suasa, Aquileia, Vercelli, Bologna, Imola, Cartagine e Roma29.
Bollo SVRVS su due anfore, in un caso con R retrograda (fig. 4); entro cartiglio rettangolare (cm 3,9×1) a lettere capitali rilevate (h da 0,8 a 0,7 cm) quest’ultimo, così come l’altro; gli impasti sono in entrambi i frammenti di colore bruno-nocciola, la superficie è un poco saponosa. Il raro elemento onomastico compare nei marchi su Dressel 2-4 attribuibili alla produzione di L. Aninius Surus, da localizzare probabilmente a Casola Canina, nell’imolese30, e noti anche a Bologna31, Altino32, Tortona33 e Teurnia, nel Norico34; da Modena proviene un bollo SVRVS su orlo attribuito a Lamboglia 235. Un marchio con il nome servile Sur(us) è su Dressel 2-4 pompeiane che componevano il carico del Grand Ribaud D36 e presenze interessanti si segnalano in Illiria: da Lissos provengono quattro contenitori identificati come Lamboglia 2 con bollo SVRVS, almeno uno dei quali con R retrograda37; ancora a Lissos, ove è noto anche il marchio SVRI38, erano forse ateliers di Lamboglia 2 con timbro SVRO39. A Rimini i due esemplari di Palazzo Massani, di cui resta l’intera porzione superiore, sono certamente attribuibili a Dressel 6A.
Bollo su orlo, entro cartiglio rettangolare (cm 5×1,5), a lettere rilevate (h 0,7/0,8) in parte molto evanide e con lettera P ad occhiello aperto; di incerta lettura: PALFID (o BID); il cartiglio è lacunoso a sinistra e termina con un’asta incavata. Non si esclude che possa essere un marchio della gens Ebidia/Ebidiena, la cui produzione, di epoca augustea, è da collocare in area emiliano-veneta40, ma va segnalato, a Pola, un bollo [-]ALFIDI41, che sembra molto vicino, anche per caratteri, a quello riminese.
Bollo su due linee, entro cartiglio rettangolare a lettere rilevate totalmente evanide (fig. 5). L’inizio della seconda linea FI[-]M[-–-] potrebbe rendere plausibile l’identificazione con il bollo NVMISIAE L.F/ FIRMILLAE, noto su un nucleo di undici esemplari a Modena42; il gentilizio, di origine etrusca, è attestato a Ravenna, Forlì e Cesena, dunque in tutto il settore orientale della regio VIII.
4 bolli su altrettanti orli sono quasi totalmente illeggibili o lo sono molto parzialmente, così da non consentire ipotesi circa la possibile attribuzione.
Un ultimo bollo su Dressel 6A è a sua volta entro cartiglio rettangolare a lettere appena rilevate e molto evanide; il bollo sembra iniziare con F e terminare con la lettera C; tra queste, una serie di nessi; si segnala qualche analogia con un bollo su Lamboglia 2 di Cremona, [-–-]ÂV̂NIAC o [-–-]ÂV̂MAC43.
Dressel 2-4
Le Dressel 2-4 rappresentano una numerosa e composita famiglia di anfore derivata da prototipi greci di III secolo a.C. (anfore di Kos e di Rodi) che, verso la metà del I secolo a.C., sostituì le Dressel 1 nelle regioni tirreniche e, verso la fine del secolo, probabilmente in contemporanea alle Dressel 6A, le Lamboglia 2 in Adriatico. Nella fornace di Cesenatico si assiste al passaggio senza soluzione di continuità tra Lamboglia 2 e Dressel 2-4 e perciò nella Romagna orientale il seguito delle Lamboglia 2 sembrerebbe rappresentato non dalle Dressel 6A, bensì dalle Dressel 2-4. Quella di Ca’ Turchi resta tuttavia per ora l’unica officina in cui è documentato il passaggio tra i due tipi; nelle grandi fornaci della Romagna, invece, la produzione delle anfore ha preso avvio, intorno all’età augustea, proprio con le Dressel 2-4.
Le Dressel 2-4 di fabbricazione romagnola hanno orli a corta fascia convessa, collo cilindrico che si allarga all’attacco della spalla, anse a doppio bastoncello leggermente rimontanti e con angolatura arrotondata; il fondo, a puntale pieno, è generalmente abbastanza corto e inferiormente convesso, talora con terminazione un poco appuntita. L’argilla è chiara, dal beige al rosa al giallino; l’impasto, mediamente depurato, contiene per lo più sparse calciti di media grossezza.
I frammenti rinvenuti a Rimini comprendono orli, fondi e anse e sono in tutto 168, pari al 9,7% del totale; la loro presenza si estende a ben 19 dei 26 siti controllati, ma i maggiori addensamenti si registrano a Palazzo Massani e in Via Sigismondo, dove tuttavia il rapporto rispetto alle altre vinarie è medio-basso, mentre al Cinema Tiberio44 esse rappresentano, nei livelli della metà del I secolo d.C., quasi l’unico contenitore italico attestato. Tutti privi di marchi di fabbrica, si possono raggruppare in due nuclei; il più folto, quello delle anfore di produzione locale, comprende una serie di orli la cui morfologia è pienamente allineata con i prodotti della zona; l’argilla è per lo più chiara (dal beige al rosa: 7.5 YR 7/4 o 7.5 YR 8/3), abbastanza depurata con inclusi di solito bianchi, talora con leggere tracce di mica. Anche la maggior parte dei puntali è riconducibile a produzioni locali; la morfologia è costantemente simile a Santarcangelo e, in percentuale minore, a Cesenatico.
Un altro gruppo di frammenti sembra invece avvicinarsi a tipi tirrenici, e più specificamente vesuviani: l’impasto è di colore rosso-bruno o arancione (5 YR 7/4: 10 YR 8/3), gli inclusi grigi e neri; caratteristica costante di questi frammenti, distribuiti soprattutto tra Palazzo Massani ed Ex Ospedale, è l’orlo dal bordino molto basso, superiormente arrotondato e abbastanza segnato inferiormente, anche se l’esiguità dei frammenti e l’assenza di analisi delle argille inducono ad una certa prudenza, se ne possono contare una decina. Il dato è interessante e testimonierebbe l’arrivo a Rimini dei vini prodotti tra Sorrento e il Vesuvio, che giungevano certamente in alto Adriatico45: si avrebbe inoltre conferma del persistere, fino alla metà del I secolo d.C., di rapporti commerciali tra Rimini e la Campania.
Anfore a fondo piatto
Costituiscono la classe in assoluto più documentata dal punto di vista quantitativo, mentre circa la topografia dei rinvenimenti, le presenze coincidono quasi esattamente con quelle delle Dressel 2-4: in tutto, 320 tra orli e fondi e 210 anse, ma non raggiungono la percentuale più alta in tutti i siti. Svettano certamente sugli altri Ex Ospedale, Ex Vescovado ed Ex S. Francesco; una riflessione a parte va fatta per Palazzo Diotallevi, dove si riteneva fosse stata installata una fornace la cui datazione (III s. d.C.) offriva il termine più basso alla produzione di questa classe. In realtà, il controllo accurato dei materiali ha escluso la presenza di scarti di cottura: le evidenti tracce di fuoco rilevabili su un consistente numero di frammenti di questa importantissima domus vanno attribuiti al fuoco sviluppato dagli incendi conseguenti alle prime incursioni, nel terzo quarto del III secolo d.C., di manipoli di Alamanni che provocarono distruzioni a Rimini e in tutta la Romagna. Tale osservazione non modifica però la cronologia delle ultime produzioni delle anfore a fondo piatto in questa regione: nei livelli della seconda metà del III secolo d.C., infatti, queste costituiscono spesso le presenze più rilevanti, mentre nei livelli più avanzati si diradano fino a scomparire del tutto.
L’anamnesi dettagliata delle forme e delle varianti presenti a Rimini è appena avviata: mi limiterò in questa sede a precisare che la maggior parte degli orli appartiene al tipo prodotto a Santarcangelo46, con incavo interno in corrispondenza dell’attacco dell’ansa, mentre sembra di cogliere una maggiore varietà per quanto riguarda i piedi, più o meno svasati, a profilo convesso o quasi verticale e differenti concavità nella parte inferiore. Il recente rinvenimento, nel 2006, nelle fornaci di Via Vicina Contea47 a Santarcangelo di due fondi molto vicini formalmente a questa produzione, ma senza piede distinto dal fondo e di dimensioni inferiori (diam. 5 cm), pone la questione di una produzione di anforette di piccole dimensioni, certamente di capacità molto ridotta rispetto a quella dei contenitori maggiori, mediamente intorno ai 16 l per le più grandi e di circa 12 per la forma ridotta. Se le anforette di Santarcangelo fossero destinate al trasporto di pesce o di qualità di vino di maggior pregio prodotto in zona è impossibile a dirsi: oltre tutto il loro rinvenimento in fornace, e dunque in una condizione di preutilizzo, non fornisce elementi aggiuntivi all’analisi.
L’argilla è sempre molto chiara, grigio-rosata o beige, la superficie è per lo più molto polverosa, l’impasto appare costantemente depurato, con radi inclusi bianchi e grigi, la frattura è più o meno netta, proporzionalmente alla durezza dell’impasto; alcune prove fatte con un maestro ceramista hanno dimostrato che la temperatura di cottura, in questi forni, non era mai molto alta (spesso intorno ai 600-700 C): quando questi impasti vengono sottoposti a cotture fino a 1000 C, si modifica fortemente la loro colorazione, che passa ad un arancio deciso, l’impasto diviene più duro, ma la superficie mantiene una sostanziale polverosità.
Anfore olearie
Anfore ovoidali adriatiche
I frammenti riconducibili a questa tipologia riconosciuti a Rimini sono in tutto tre cui si potrebbe forse aggiungere un quarto frammento di orlo di incerta identificazione. Le anfore ovoidali sono contenitori che si inseriscono in parte nella tradizione figulinaria apula dei principali impianti noti di quella regione (Apani, Giancola, La Rosa e Marmorelle), ma esiste anche una fabbricazione parallela lungo la costa medioadriatica, a Cologna Marina e a Cesano di Senigallia48 cui molto si avvicinano i profili riminesi, caratterizzati da un ingrossamento sotto il bordo, ad anello ingrossato. L’impasto varia dal colore rosa-nocciola ai toni dell’arancio, è mediamente duro e un poco granuloso, e reca al proprio interno inclusi grigi di medie dimensioni affioranti in superficie.
Dressel 6B
Delle Dressel 6B, a Rimini si contano 31 frammenti tra orli e colli, corrispondenti al 3,4% delle presenze complessive; insieme con le anfore con collo ad imbuto, sono le maggiori e quasi uniche attestazioni di contenitori da olio, concentrati in soli otto siti, coincidenti però con le domus più grandi e di più lunga durata. Prodotte in Istria nelle fornaci di Fasana e di Loron49, la loro fabbricazione interessò anche altre aree: il territorio patavino, l’ambito piceno e medio-adriatico, l’area padana; si possono per ora escludere officine nella Romagna orientale. Resta aperto il problema del consumo oleario e delle fonti di approvvigionamento di questa derrata a Rimini: se in parte la ragione della scarsità di anfore da olio va ricercata nell’utilizzo di grassi animali, non va tuttavia ignorato un carattere costante delle colture di questo territorio, specie per quanto riguarda l’olio, e cioè che, pur senza raggiungere un surplus produttivo, l’olivicoltura praticata garantiva il fabbisogno interno.
Le Dressel 6B rinvenute sono estremamente frammentarie, non si conosce lo sviluppo complessivo del contenitore, e dunque approssimative restano le attribuzioni; gli orli sono molto vari e difficilmente assegnabili con certezza all’uno o all’altro centro produttore, ma si riconosce una discreta presenza di anfore istriane, sia di Fasana, sia di Loron: rispetto a quest’ultimo centro, paiono rappresentate le fasi più antiche e quelle più recenti, confermate dalle associazioni stratigrafiche a Palazzo Massani e in Via Sigismondo. Sulla base delle argille, si possono distinguere due gruppi principali: un impasto di colore arancione/rosso-arancione o rosso vivo, duro al tatto e a frattura mediamente o molto netta, con inclusioni grigie e rosse, presumibilmente riconducibile soprattutto a Loron, cui sembrano riferirsi anche i profili degli orli; un secondo raggruppamento, meno numeroso, di orli che trovano confronti formali con centri della Cisalpina quali Vercelli, Modena, Milano e Alba Pompeia50, reca argille chiare, tenere, polverose, a frattura irregolare, vicine a quelle delle fabbriche tra Marche e Romagna.
Quasi tutti i frammenti sono anepigrafi, ad eccezione di un orlo con bollo entro cartiglio rettangolare, di cui restano solo le ultime tre lettere ben rilevate e dal ductus regolare: [-–-]ANI; si propone lo scioglimento in FONTANI51, diffuso in ambito padano, da Cremona ad Oderzo, e attestato anche ad Ordona; in assenza di riferimenti certi, la produzione viene genericamente collocata in area padana tra gli ultimi anni del I secolo a.C. e l’iniziale I secolo d.C.
All’interno di un gruppo di Dressel 6B di Palazzo Massani, un orlo reca un marchio acefalo a lettere capitali rilevate entro cartiglio rettangolare; [-–-]ENNA[E], integrabile con SISENNÂE (fig. 6); i caratteri morfologici e le dimensioni dell’orlo coincidono con quelli del sottotipo “a labbro alto” delle Dressel 6B di Loron52.
Va inoltre ricordato che a Cattolica le Dressel 6B sono tra le meglio attestate tra gli arrivi dal mare, presumibilmente recuperate da relitti lungo la costa tra Rimini e Fano.
Anfore con collo a imbuto
Di queste anfore sono stati rinvenuti 19 frammenti di orli, cui vanno aggiunti alcuni puntali e qualche ansa di più incerta identificazione; i siti di rinvenimento, in tutto nove, si sovrappongono solo in parte a quelli delle Dressel 6B, ma i settori cittadini sono i medesimi e di nuovo si conferma la maggiore consistenza nelle domus più importanti della città; dal punto di vista quantitativo, le presenze appaiono allineate con quelle della pianura padana53, ma le alte attestazioni di Cattolica, percentualmente maggiori rispetto a Rimini, fanno pensare che il loro arrivo, come quello delle Dressel 6B, fosse essenzialmente via mare, affidato ad una navigazione di cabotaggio lungo costa, senza sottovalutare tuttavia la relativa facilità di attraversamento tra le due sponde adriatiche.
Quasi tutti i frammenti sono riconducibili al tipo 1 di S. Mazzocchin54; su una sola porzione di collo e orlo, dall’Ex Consorzio Agrario, si riconosce una linea arcuata incisa a crudo, secondo una tendenza ricorrente su questi contenitori. Nessuno dei frammenti riminesi reca marchi di fabbrica; le argille rientrano in due o tre principali raggruppamenti: impasto rosso o arancio-rosso, durissimo, grumoso in sezione, con inclusi radi, bianchi e neri (2.5 YR 5-6/8); argilla tendente al nocciola, abbastanza o molto dura, a frattura netta, con inclusi minuti e radi, bianchi e grigi (7.5 YR 6/6 e 5YR 6/6); infine, un impasto chiaro, prevalentemente di colore beige, depurato e polveroso, vicino agli impasti adriatici della zona, rispetto cui restano da chiarire ancora diversi aspetti e per cui si dovrà forse giungere a definizioni, anche geografiche, meno generiche. Appaiono infatti del tutto estranee alla produzione di anfore olearie le fornaci della Romagna, nei cui edifici rustici, tuttavia, veniva spremuto anche olio, ma probabilmente non in quantità tali da dover essere collocato sul mercato. Circa la cronologia, in nessuno dei contesti in cui sono presenti anfore con collo a imbuto sembra di poter oltrepassare, se non di pochi o pochissimi decenni, il II secolo d.C.
Anfore troncoconiche da olive/ Schörgendorfer 558
A Rimini questa classe di anfore è rappresentata da soli due esemplari provenienti da Palazzo Massani e dall’Ex Consorzio Agrario, entrambi riconducibili al tipo A di S. Pesavento Mattioli55, diffuso in Cisalpina; il rinvenimento riminese dovrebbe essere al momento il più meridionale. La collocazione del frammento di Palazzo Massani nella US 2346a conferma la datazione di questo tipo entro la prima metà del I secolo d.C. L’argilla di colore beige rosato (2.5 YR 7/3) è dura e a frattura mediamente netta; gli inclusi sono grigi e bianchi, molto sparsi ma radi.
Anfore da pesce
Anforette adriatiche da pesce
Un’analisi dettagliata delle anfore riminesi di piccole dimensioni e le indagini sui residui consentiranno forse di comprendere meglio l’eventuale commercializzazione del pescato di Rimini o, viceversa, l’arrivo da altre regioni. Le tracce in tal senso sono ad oggi quasi nulle; è del resto sempre apparso modestissimo l’arrivo di contenitori spagnoli da garum, di cui sono state identificate pochissime unità. Ricollegandomi a quanto precedentemente proposto, segnalo come le produzioni di anfore a fondo piatto di piccole dimensioni recentemente rinvenute nella fornace di Via Vicina Contea a Santarcangelo avrebbero forse potuto soddisfare anche il commercio del pesce trasformato e conservato.
Del tipo di anforette in cui è stato proposto di riconoscere le anfore da pesce dell’Adriatico56, sono stati rinvenuti a Rimini in tutto 5 frammenti di cui 2 all’Ex Ospedale, 1 a Palazzo Diotallevi, 1 all’Aquila d’Oro e 1 all’Ex Consorzio Agrario. Sono rappresentati sia il tipo “Grado I”, sia quello “con orlo a fascia”57, ma maggiori sono le analogie anche con i gruppi A e B di Urbs Salvia58, il cui rinvenimento, senza corrispondenze in territorio marchigiano, non consente per ora di chiarire diffusione, portata e commercio dei prodotti ittici del medio Adriatico.
È opportuno anche tenere presente il riutilizzo per il trasporto del pesce dei tradizionali contenitori vinari a fondo piatto quale si legge nel relitto di Grado59; d’altronde, la modestissima quantità di anforette da pesce e, in parallelo, la scarsa consistenza degli arrivi di anfore da garum dalla penisola iberica sembranoin linea con la tradizione medioadriatica di pesca e di conservazione del pesce più che soddisfacente per le esigenze interne. Va forse tenuta in conto la tradizione, riferitami da alcuni pescatori, secondo la quale alcune donne della costa, specialmente ravennate, ponevano le sardine in una sorta di salamoia entro cassette di legno. Se questa informazione troverà riscontro, e se è riconducibile anche all’antichità, nell’utilizzo del legno per i contenitori si potrebbe individuare una delle ragioni circa l’assenza di dati intorno ad un prodotto che invece in quest’area è sempre stato protagonista.
Le anforette adriatiche da pesce si datano, sulla base del relitto di Grado, tra II e III secolo d.C.
A Rimini sono rappresentate tutte le classi note di anfore adriatiche, con la netta prevalenza dei contenitori vinari, che costituiscono oltre il 90% delle presenze; il dato riflette gli arrivi, ma soprattutto le produzioni di quest’area, in cui quella della vite era certamente una delle più importanti colture, e forse la principale (fig. 7). La preminenza del vino è confermata dalle importazioni per tutto il periodo preso in considerazione (III secolo a.C. – III secolo d.C.): sono attestate in discreta misura anfore vinarie dell’Egeo (Cos, Chio, Cnido e specialmente Rodi), della costa anatolica e, specialmente per tutta l’età repubblicana fino ad Augusto, del Tirreno, mentre appaiono irrilevanti gli arrivi dal Mediterraneo occidentale: emerge dunque una comunità che si rivolgeva a derrate di buon pregio, quali i vini del Tirreno e dell’Egeo, già a partire dagli estremi anni del IV secolo a.C. Dopo la battaglia di Sentino, in seguito alla quale ripresero senza troppi ostacoli i traffici mercantili lungo l’Adriatico, non solo si incrementarono gli arrivi di merci e derrate, ma lo stesso territorio riminese avviò una serie di produzioni che a loro volta potevano rispondere a richieste dall’esterno.
Raggiungono poco meno del 10% le anfore olearie, per nessuna delle quali si conoscono produzioni nella zona di Rimini; le loro provenienze sono dall’alto Adriatico e dall’Istria, dal Piceno e dalla Puglia, con numeri tuttavia modesti. E modestissimi sono i numeri relativi ai contenitori da pesce: olio e pesce sembrano così delineare il quadro di una regione che si approvvigionava da altri territori solo quando non aveva proprie produzioni o, come nel caso del vino, per le colture pregiate o “di moda” (fig. 8).
Resta confermata, dal III secolo a.C. fino al III secolo d.C., l’assenza quasi totale di marchi di fabbrica sui prodotti locali; è indubbio che in questa regione prevalessero le proprietà medio-piccole, il fitto appoderamento e che nelle fornaci non venissero quasi mai bollati i prodotti.
C. Panella, in un suo saggio importante, afferma: “la massiccia presenza nei siti-mercato dell’Oriente e dell’Egitto del vino trasportato nelle Lamboglia 2 (e dell’olio trasportato nelle anfore ovoidi di Brindisi) dà la certezza che le zone destinate all’arboricoltura speculativa dovevano essere anche in quest’area, tra la metà del II e la prima metà del I secolo, assai consistenti”60.
Si deve allora, forse, immaginare un’organizzazione del lavoro agricolo e artigianale che prevedesse scambio di manodopera, compresa quella femminile, e si può forse ipotizzare una forma organizzata e “collettiva” di gestione dei forni quale sembra di intravedere a Forlimpopoli (Via della Madonna) e in alcuni impianti di Santarcangelo, in cui gli spazi della cottura prevalgono nettamente su quelli della fabbricazione; si deve inoltre ripensare al tema della organizzazione del commercio e del rapporto tra pubblico e privato in questa area61.
Infine, va sottolineato come l’analisi delle anfore rinvenute a Rimini porti in primo piano i rapporti continui con la sponda orientale: Istria, Dalmazia e Illiria. Gli scambi avvenivano attraverso la navigazione di cabotaggio, ma erano molti i periodi dell’anno in cui le navi potevano compiere la traversata; le analisi su altri tipi di materiali e su altre forme di scambio stanno del resto portando sempre più in primo piano le relazioni con l’Illiria, e con Apollonia.
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Notes
- Lo studio e l’analisi delle anfore rinvenute a Rimini è purtroppo limitato dall’assenza, per gran parte degli scavi riminesi, di studi sistematici e di pubblicazioni sui materiali rinvenuti, di solito limitate alle strutture abitative, senza analisi complessive sui contesti di pertinenza. Tale premessa è indispensabile per chiarire l’approssimazione di talune datazioni, che il più delle volte devono far ricorso a criteri meramente e genericamente tipologici; rappresentano un’eccezione l’edizione integrale dello scavo dell’ex Vescovado (Mazzeo Saracino, ed. 2005) e, di molto precedente, quella dell’area Rastelli-Standa, su cui insistevano i resti del teatro romano (Piolanti 1984; Giovagnetti 1984); gli scavi del Borgo S. Giuliano, in un’area extra moenia ma in diretta relazione con l’innesto della via Emilia alla città (Piolanti 1994; Fontemaggi 2000); i materiali della domus di Palazzo Diotallevi sono stati oggetto di due tesi di laurea (Minak 1997-1998 e Iandoli 1997-1998); è attualmente in corso l’analisi dei materiali della domusdel chirurgo da parte di C. Giovagnetti e di C. Negrelli. Non sono poi mancati studi specifici e fondamentali su alcune delle principali classi ceramiche; per tutti, gli studi di G. Riccioni sulle vernici nere di produzione riminese (Riccioni 1970, 263-273) e di M.G. Maioli sulla cultura materiale di età romana (Maioli 1980, 129-207). Qui si arresta purtroppo lo studio complessivo e completo dei principali scavi di una città che rappresenta uno dei maggiori depositi archeologici del medio Adriatico.
- Tramonti 1995, 237-239.
- Alfieri 1986, 235-237.
- Nella discarica c’erano numerosi scarti di cottura e interi blocchi di paramenti dei forni.
- Stoppioni 2011a, 109-111, fig. 4.
- Stoppioni 1993a, 94-96.
- Cavazzoni 1990, 79-88.
- Stoppioni 1993b, 199-211.
- Maioli 1991-1992, 199-201, fig. 130.
- Stoppioni 2011a, 105-108.
- Per alcune precisazioni circa impasti e suddivisioni quantitative, si rimanda a Stoppioni 2011b, 209-221, e in particolare pp. 210-213.
- Lyding Will 1982, 338-356.
- Vandermersch 1994, 76-80.
- Toniolo 2000.
- Vandermersch 1994, 77, fig. A.
- Stoppioni 2008, 131-150.
- Farfaneti 2001, 130-135
- I frammenti provengono tutti dalla medesima US 649.
- Carre & Cipriano 1989, 81.
- Brecciaroli Taborelli 1984, tipo 3; Menchelli et al. 2008, 9, fig. 6, nn. 4-5.
- Bruno 1995, tipo 7b, coincidente con la forma Will 6.
- In Stoppioni 2011b, 217 e 219, fig. 8, era stata erroneamente offerta la lettura FRIO, peraltro poco convincente; la nuova e recente documentazione ha permesso di correggere l’errore.
- Callender 1965, 204, n. 1315b – PERIGE: Roma, CIL, XV, 3089, e Vercelli, CIL, V, 8112, 65; per Vercelli, Brecciaroli Taborelli 1987, 135, tav. XV.1 e tav. XXII.3 (2 esemplari impressi verosimilmente con lo stesso punzone); RTAR I, n. 96 (Lamboglia 2); Bruno 1995, 143. Sul bollo si veda anche Nonnis 2015, 336 (Perigenes).
- Tiussi 2007, 172-173, n. 18 (Aquileia, Essiccatoio Nord, scavo 1996), US 1433, inoltrato I secolo a.C.
- Brecciaroli Taborelli 1984, 35-93.
- A proposito si veda il contributo di Cristina Giovagnetti in questo stesso volume.
- In attesa di uno studio dettagliato, mi limito in questa sede ad una rapida rassegna dei bolli riconosciuti, senza apparato critico.
- Palazzo Massani, inv. SAER 244773, US 4099.
- Per la discussione su questo bollo e per la relativa bibliografia Mongardi 2018, 86-87.
- Bermond Montanari 1962, 165, 168. Ad Apani, nel territorio di Brindisi, era attiva una fornace degli Aninii (Palazzo & Silvestrini 2001, 89-91).
- CIL, XI, 6695, 10a-e; Curina & Mongardi 2018, 283, fig. 2.4.
- Cipriano 2003, 240 e nota 55; viene proposto, come a Casola Canina, di riconoscere L. Aninius Surus/Syrus nel bollo [-–-]SVRI su una Dressel 2-4.
- RTAR II, n. 824.
- AE 2008, 1004b.
- Mongardi 2018, 63-64, 165, n. 20.
- Hesnard 1988, 49, n. TA.2.3.
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- Desy 1989, 35, n. 123.
- Desy 1983, 184, nota 32; Tiussi 2007, 164. Sui bolli menzionanti il nome Surus su Lamboglia 2 si veda da ultimo Nonnis 2015, 421 (Surus [3]).
- Pesavento Mattioli & Buonopane 2005; Pesavento Mattioli & Mongardi 2018, 326-330, 342-345, tab. 3.
- Starac 1994-1995, 157, T. 7.1.
- Mongardi 2018, 98-99, 191-193, nn. 102a-a10.
- Manzia 1996, 211, fig. 3.
- Fontemaggi 2000, 31 e tav. VII.41: un controllo nelle casse mi ha permesso di contare 41 fra orli e puntali.
- Per esempio ad Altinum, dove compaiono anche esemplari bollati di L. Eumachius: Cipriano 2003, 241.
- Stoppioni 1993c, 150-154.
- Stoppioni 2011a, 108.
- Carre & Pesavento Mattioli 2003, 459-460 e tab. 1.
- Per questo contenitore si rimanda a Cipriano 2009, dove è fatto il punto sugli studi, sui centri di produzione e di diffusione e sulla evoluzione morfologica e cronologica.
- Per Vercelli, Brecciaroli Taborelli 1987, tav. XVIII.2; per Milano, Bruno & Bocchio1991, tav. CXVI.80; per Alba Pompeia, Bruno 1997, fig. 2.1.
- Questo bollo, presente solo su Dressel 6B, è stato oggetto di analisi in Cipriano & Mazzocchin 2002, 312-319, e in particolare pp. 314-319, fig. 7 con tabella delle attestazioni del marchio.
- Marion & Starac 2001, 113, fig. 32 b.
- Mazzocchin 2009, 192 e tab. 1.
- Mazzocchin 2009, 193: il tipo si caratterizza per le anse con profilo ad orecchia, orlo a bordo indistinto e talora ingrossato.
- Pesavento Mattioli 2008, 336, fig. 1.
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- Panella 2010, 91
- Pellicioni 2008, 156-157.