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La nozione di ἀρχή nella Politica di Aristotele*

Pierre Carlier
Texte édité par Christian Bouchet et Bernard Eck

Paru dans Poleis e Politeiai: esperienze politiche, tradizioni letterarie,
progetti costituzionali: atti del convegno internazionale di storia Greca,
Torino
2002, S. Cataldi  dir., Fonti e Studi di Storia Antica 13, Alessandria, Ed. dell’ Orso, 2004, p. 393-401.

Una delle difficoltà maggiori dell’esame del pensiero politico di Aristotele è che molto spesso all’inizio delle sue analisi, il filosofo usa le parole politiche greche nel loro senso usuale per poi impegnarsi a darne anche definizioni nuove e più esatte1.

Uno dei sensi più comuni della parola ἀρχή è quello di “potere”, “autorità”2. Però, dall’inizio del primo capitolo del primo libro della Politica, Aristotele insiste sul fatto che c’è una differenza specifica fra autorità politica da una parte e tutti gli altri tipi di autorità dall’altra parte. “Quanti credono che l’uomo politico, il re, il capofamiglia e il padrone siano lo stesso non dicono giusto” (I, 1, 1252 a 79)3. Per Aristotele, è un errore pensare che la differenza fra questi ἄρχοντες consista in una differenza di numero e non di natura. Riguardo all’uomo politico e al re, si immagina spesso che chi esercita l’autorità da sé è re e che chi è a vicenda governante e governato è uomo politico, ma per Aristotele questa differenza non è la differenza fondamentale. A questo punto, il filosofo non spiega in che cosa consiste la differenza specifica fra ἀρχὴ πολιτική e tutte le altre, ma l’opposizione può essere dedotta dall’insieme del primo libro della Politica.

Nella famiglia, ci sono tre tipi di associazione (κοινωνία): quella del padrone e degli schiavi; quella del padre e dei figli; quella del marito e della moglie. Chi è schiavo secondo natura non ha nessuna autonomia, la sua intelligenza è passiva e può soltanto capire e eseguire gli ordini del padrone4; l’autorità di quest’ultimo è analoga a quella del tiranno. I figli giovani non hanno ancora la facoltà di deliberare e di decidere; l’autorità del padre che deve decidere da solo per il loro interesse, è analoga a quella del re. La donna, invece, possiede la parte deliberativa (τὸ βουλευτικόν), ma senza forza (ἄκυρον); anche se intelligente, essa è dominata dalle passioni e quindi incapace di governare la famiglia (I, 13, 1260 a 12)5. L’autorità del marito è analoga a quella dell’uomo politico, ma non identica. La moglie partecipa alla deliberazione, ma tutta l’ἀρχή, tutto il potere appartiene al marito. All’interno della famiglia, tutte le associazioni sono fondamentalmente disuguali, anche se in modo diverso. A detenere l’ἀρχή è solo una persona, mentre gli altri sono soltanto ἀρχόμενοι.

Nei tempi antichi, secondo Aristotele, la regalità era come un’estensione dell’autorità del capofamiglia e del capovillaggio6. Essa era giustificata perché la virtù politica era molto rara ed era una sola famiglia a possederla. D’altra parte, la παμβασιλεία, la regalità assoluta, è giustificata solo quando il re ha più virtù di tutti gli altri insieme7. In entrambi i casi, c’è una grande disuguaglianza fra il re e i suoi sudditi, e questo fatto fondamentale spiega perché il re esercita tutto il potere, e perché non c’è alternanza.

Nel terzo libro della Politica, Aristotele definisce il cittadino come colui che “partecipa all’attività di giudice e alle cariche politiche, κρίσεως καὶ ἀρχῆς » (III, 1, 1275 a 23-24). In seguito, il filosofo distingue ἀρχαί a tempo limitato e ἀρχαί a tempo indefinito (ἀόρισται) come quella di membro dell’assemblea o di giudice. Queste ultime attività di solito non sono chiamate ἀρχαί (nell’uso corrente, la parola designa soltanto le funzioni che noi chiamiamo magistrature); però, dichiara Aristotele, sarebbe ridicolo negare autorità (ἀρχή) a coloro che hanno il potere supremo (τοὺς κυριωτάτους). Il cittadino potrebbe definirsi come colui che partecipa all’ἀρχὴ ἀόριστος. Tuttavia, Aristotele osserva che questa definizione è adeguata soprattutto per le democrazie: in molte oligarchie, il vero potere appartiene ad alcuni magistrati che esercitano ἀρχαί a tempo limitato. In questi casi, i veri cittadini sono coloro che partecipano a queste magistrature. Alla fine del capitolo, il filosofo propone una definizione generale e complessiva: il cittadino è colui che ha la possibilità di partecipare (κοινωνεῖν) al potere deliberativo o giudiziario (ἀρχῆς βουλευτικῆς ἢ κριτικῆς8). È vero che in alcune oligarchie, i poveri sono chiamati cittadini mentre sono totalmente esclusi dal potere. L’attribuzione d’un tale titolo vuoto è un inganno9, che Aristotele energicamente disapprova: quando i poveri si accorgono di essere ingannati, il malcontento legato alla loro esclusione è ancora più grande10.

Tutti i cittadini nel senso stretto della parola partecipano al potere, ma più o meno, e non nello stesso modo. Ci sono due tipi di uguaglianza nel pensiero greco da Solone ad Aristotele: l’uguaglianza aritmetica (la stessa cosa per tutti) e l’uguaglianza geometrica (a ciascuno in proporzione al merito o alla ricchezza). Il ruolo rispettivo di queste due uguaglianze dipende dalla costituzione. Aristotele definisce la costituzione (πολιτεία) come “l’ordinamento dei vari poteri e specialmente di quello che è sovrano”, τάξις τῶν ἄλλων ἀρχῶν καὶ μάλιστα τῆς κυρίας πάντων (III, 6, 1278 b 10)11.

L’analisi aristotelica delle costituzioni12 insiste sui fattori sociali. Il fatto fondamentale è quale gruppo è più influente. In un passo molto famoso e molto ammirato da alcuni marxisti13, Aristotele spiega che una costituzione è oligarchica quando i ricchi sono sovrani anche se i ricchi sono la maggioranza, mentre è democratica quando i poveri sono sovrani, anche se i poveri sono pochi (III, 8, 1279 b). Nella classificazione delle democrazie, Aristotele riserva una particolare attenzione anche alla composizione sociale del demos – se i contadini, gli artigiani o i marinai sono più numerosi, per esempio (IV, 6, 1292 b 22-1293 a 10). Tuttavia, Aristotele esamina anche l’ordinamento delle istituzioni in una maniera che si potrebbe definire giuridica.

Nel quarto libro della Politica (14, 1297 b 37-1298 a 3)14, Aristotele distingue τρία μόρια, tre “parti”, probabilmente tre funzioni15 fondamentali, di ogni costituzione:

  1. τὸ βουλευόμενον, la parte che delibera e decide (la parola βουλεύεσθαι ha entrambi i significati). Aristotele precisa che “la parte deliberante è sovrana riguardo alla pace e alla guerra, all’alleanza e alla denuncia di trattati, riguardo alle leggi, riguardo alle sentenze di morte, d’esilio, di confisca, riguardo all’elezione dei magistrati e al loro rendiconto”16.
  2. αἱ ἀρχαί, le magistrature. Aristotele fa l’elenco delle magistrature che sono indispensabili in una città, dalla “strategia” alla sorveglianza del mercato. Egli esamina i diversi modi di designazione dei magistrati17. Questo passo particolarmente difficile è stato studiato da Marcel Piérart dieci anni fa18. Ora, vorrei insistere unicamente sulla definizione aristotelica delle ἀρχαί. Secondo Aristotele (IV, 15, 1299 a 15), tutti coloro che sono eletti o scelti tramite sorteggio non sono ἄρχοντες nel senso stretto della parola: i sacerdoti per esempio o gli ambasciatori non sono magistrati, e vi sono anche cariche tecniche che sono talvolta occupate da schiavi pubblici. Secondo Aristotele, si devono chiamare magistrature soltanto “quelle a cui è demandato il compito di deliberare su determinati affari, di scegliere (κρίνειν19) e di dare ordini (ἐπιττάτειν), questo specialmente perché il dare ordini è caratteristica essenziale dell’ἀρχή. La magistratura (ἀρχή) si definisce quasi etimologicamente in quanto diritto di dare ordini (ἄρχειν, ἐπιττάτειν). Si nota che anche i magistrati hanno un potere di deliberazione e di decisione, ma soltanto nel quadro di competenze limitate.
  3. τὸ δικάζον, la parte giudiziaria. Aristotele dà un elenco dei tipi di tribunali, corrispondenti a otto tipi di processi diversi, e ne esamina la composizione.

A noi può sembrare strano che il corpo deliberante abbia anche il potere di condannare a morte, all’esilio e alla confisca dei beni, ma su questo punto non c’è nessun commento del filosofo, forse perché in molte città greche l’organo sovrano – l’Ecclesia ad Atene per esempio – detiene questo potere20. Sembra che per Aristotele l’ἀρχή dei tribunali, come quella dei magistrati, sia specializzata e subordinata a quella del corpo deliberante.

La parola ἀρχή ha nella Politica di Aristotele quattro usi differenti.

Aristotele distingue nettamente i tre tipi di ἀρχή domestica da una parte e l’ἀρχή politica dall’altra. L’ἀρχή politica ha qualcosa di paradossale: è un’ἀρχή fra uguali, esercitata da uguali su uguali.

Nel quadro dell’ἀρχὴ πολιτική, Aristotele distingue le ἀρχαί-magistrature e l’ἀρχή senza limitazione di tempo (quella di membro dell’assemblea) che può essere l’ἀρχή sovrana in una democrazia. In questa analisi fondamentale, Aristotele estende l’uso abituale del termine. L’ἀρχὴ ἀόριστος può essere un potere collettivo esercitato da tutti i cittadini insieme.

A proposito delle magistrature, Aristotele fa una distinzione che è anche una restrizione: tutte le funzioni pubbliche usualmente chiamate ἀρχαί non lo sono giustamente. Le funzioni senza potere – i sacerdozi per esempio – sono onori e servizi, ma non sono ἀρχαί nel senso stretto della parola. Inoltre, Aristotele sottolinea che la parola può significare “attribuzione” o “istituzione”: bisogna esaminare ποίας ἁρμόττει συνάγειν ἀρχὰς εἰς μίαν ἀρχήν, quante funzioni conviene riunire in una magistratura (IV, 15, 1299 b 13).

Aristotele si basa sull’uso comune della parola, ma egli la impiega nello stesso tempo in modo più esteso e più ristretto. L’uso aristotelico di ἀρχή è più fedele all’etimologia evidente della parola e più omogeneo: tutti i poteri sono ἀρχαί, solo i poteri sono ἀρχαί.

Molti traduttori e commentatori moderni parlano di “potere legislativo” a proposito del corpo deliberante, di “potere esecutivo” a proposito delle ἀρχαί e di “potere giudiziario” a proposito dei tribunali21, suggerendo cosi un accostamento con la famosa tripartizione di Montesquieu nell’Esprit des Lois XI, 622. Però, il titolo del capitolo di Montesquieu è “De la constitution d’Angleterre”. Per la sua teoria della separazione dei poteri, Montesquieu, che conosce molto bene la storia antica e la Politica di Aristotele, si riferisce ad un modello moderno.

La parte deliberante di Aristotele ha attribuzioni giudiziarie e esecutive importanti (le decisioni riguardo alla guerra e alle alleanze sono secondo Montesquieu attributi del potere esecutivo). Invece, sarebbe molto inesatto dare alla parte deliberante il nome di potere legislativo. È vero che la parte deliberante è sovrana περὶ νόμων e che cambiare alcune leggi è una delle sue funzioni. Però, è preferibile secondo Aristotele che la legislazione rimanga stabile e che la sovranità del nomos sia superiore a quella di ogni istituzione (ΙΙ, 8, 1268 a)23. Questa differenza gerarchica fra le leggi e tutti i poteri è molto chiara nella discussione sulla pambasileia del libro terzo. Aristotele dimostra prima che il regno delle leggi è superiore a quello di un individuo, poi che la deliberazione di molti uomini è preferibile a quella di un solo uomo24.

È interessante esaminare i ruoli rispettivi delle tre parti di Aristotele nelle diverse costituzioni.

In un’oligarchia estrema, una dynasteia, deliberazione e decisione sono riservate ad un piccolo gruppo che ha anche il monopolio delle magistrature. Τὸ βουλευόμενον e αἱ ἀρχαί non si distinguono più. Gli ἄρχοντες non sono controllati e governano in modo arbitrario. Le leggi non sono più sovrane25.

In una democrazia estrema, l’assemblea del demos delibera e prende decisioni su ogni affare. I magistrati non hanno più nessun potere, i cittadini non accettano più di essere ἀρχόμενοι e di ubbidire, le magistrature sono distrutte, καταλύονται αἱ ἀρχαί (IV, 4, 1292 a). Questo regime è nello stesso tempo anarchia (perché nessuno accetta di ubbidire) e tirannide (perché la maggioranza dei poveri opprime e spoglia i ricchi). Anche in questo caso, si osserva la confusione fra parte deliberante e ἀρχαί. La sovranità del demos si sostituisce a quella delle leggi26.

Invece, nelle costituzioni medie, che sono le costituzioni per eccellenza, i magistrati hanno poteri importanti, ma sono controllati, mentre la parte deliberante non può eccedere le sue funzioni, perché l’assemblea non si riunisce molto spesso, oppure perché le funzioni deliberative sono distribuite tra diversi organi. Quindi, nella costituzione media, le tre parti della costituzione sono ben distinte. La nozione di costituzione media nel pensiero politico di Aristotele è abbastanza complessa27. È una via di mezzo fra democrazia e oligarchia; è un regime nel quale la classe media è più influente (IV, 11, 1295 a-1296 b); è una costituzione mista perché combina elementi oligarchici ed elementi democratici28 (tutti i gruppi participano al potere e quindi vogliono conservare la costituzione29). È una costituzione moderata perché i diversi poteri si controllano e si equilibrano30, e perché le leggi sono sovrane.

La costituzione media non si incontra molto spesso nella realtà politica31, ma esistono forme che si avvicinano a questo modello. Aristotele elogia Solone perché il legislatore ateniese “ha dato al popolo l’autorità assolutamente indispensabile di eleggere i magistrati e di controllarne l’operato mentre ha fatto esercitare tutte le magistrature dai nobili e dai facoltosi” (II, 12, 1274 a 16-20; III, 11, 1281 b)32. Il filosofo considera che la migliore democrazia è quella nella quale gli agricoltori sono i più influenti. I contadini non hanno molto tempo libero. Quindi, l’assemblea è convocata solo nei casi indispensabili, e le ἀρχαί sono riservate ai pochi che sono abbastanza ricchi per avere il tempo di esercitarle (IV, 6, 1292 b 22-31). Analogamente, egli descrive “la prima forma di oligarchia” in termini piuttosto favorevoli: “Quando i più possiedono una sostanza, modesta però e non eccessivamente grande, si ha la prima forma di oligarchia. Essi permettono di partecipare al governo a chi la possiede e siccome c’è un gran numero di quelli che vi partecipano, è necessario che non gli uomini ma la legge sia sovrana (tanto più quindi essi distano dalla monarchia, né possiedono sì grande sostanza da potersene stare in ozio senza preoccupazioni, né sì piccola da essere mantenuti dallo stato: di necessità pertanto devono ritenere che la legge imperi ad essi, e non essi)”33.

La costituzione più adatta ad una certa città non è sempre la costituzione media (IV, 12). Quando c’è un demos numeroso e quando c’è uguaglianza di virtù, è inevitabile che le ἀρχαί siano accessibili a tutti i cittadini. In una tale situazione, gli ἄρχοντες non hanno più virtù degli ἀρχόμενοι. Tuttavia, bisogna che i governanti abbiano un onore superiore, che si istituisca una disuguaglianza artificiale e provvisoria fra governanti e governati. A questo proposito, Aristotele cita un aneddoto di Erodoto (II, 172) sul re egiziano Amasi (I, 12, 1259 b 8). Poiché alcuni rimproveravano al re le sue umili origini, Amasi prese un lavapiedi d’oro, lo fece fondere e fece fabbricare col metallo ottenuto una statua divina che tutti ammiravano: la funzione è più importante dell’origine34. Anche se tutti possono diventare magistrati, non possono esserlo nello stesso momento; l’alternanza è necessaria e crea una differenza gerarchica convenzionale, ma indispensabile al buon ordine della città.

Come tutta la tradizione greca, Aristotele insiste sul regno delle leggi più che sulla separazione delle funzioni politiche: “dove le leggi non imperano, non c’è costituzione” (IV, 4, 1292 a 33). Però, le sue analisi sulle tre “parti” delle costituzioni costituiscono un aspetto interessante della teoria aristotelica della costituzione media, quella che è una via di mezzo fra democrazia e oligarchia, quella a cui partecipano ricchi e poveri (che per questo vogliono entrambi conservarla) ma anche quella in cui c’è una netta separazione delle funzioni politiche fondamentali.

La tripartizione dei poteri non è la medesima in Aristotele e in Montesquieu, ma la teoria stessa della separazione dei poteri è già schizzata nella Politica del filosofo greco.

Notes

* Ringrazio la Dottoressa Marella Nappi per il suo aiuto nella redazione del testo italiano.

  1. Questo è legato al metodo stesso di Aristotele. Egli non respinge completamente la δόξα come Platone, ma menziona, confronta e critica le opinioni comuni per formulare poco a poco le sue analisi. Si veda P. Aubenque, La Prudence chez Aristote, Paris, 1963.
  2. Non si menzionerà qui né il senso di ἀρχή come “inizio”, “principio”, né il senso di dominazione imperialistica d’uno stato su altri.
  3. È una critica contro Platone (cfr. per esempio Politico 258e), ma anche contro un’opinione molto diffusa, che ritroviamo molto spesso in Senofonte.
  4. La teoria aristotelica della schiavitù per natura ha suscitato numerosissimi studi. Fra le analisi recenti più importanti, si può citare R. Weil, “Deux notes sur Aristote et l’esclavage”, RPh 172, 1982, p. 339-344, P. Pellegrin, “La théorie aristotélicienne de l’esclavage : tendances actuelles de l’interprétation”, RPh 172, 1982, p. 345-357, Ed. Lévy, “La théorie aristotélicienne de l’esclavage et ses contradictions”, in Mélanges P. Lévêque, III, Besançon-Paris, 1990, p. 197-213, e M. Schofield, “Ideology and Philosophy in Aristotle’s Theory of Slavery”, in Aristotle’s Politik, XI Symposium Aristotelicum, G. Patzig éd., Göttingen, 1990, p. 1-27. Schofield suggerisce che la funzione della teoria della schiavitù nel primo libro sia soprattutto quella di sottolineare il contrasto esistente fra l’ἀρχή esercitata su schiavi e l’ἀρχὴ πολιτική esercitata su uguali.
  5. Per un’analisi di questo passo, si veda W.W. Fortenbaugh, “Aristotle on Slaves and Women”, in Articles on Aristotle, J. Barnes & alii éds, Londres, 1977, p. 135-139.
  6. I, 2, 1252 b 15-27; III, 14, 1285 b 4-19; III, 15, 1286 b 8-14. Su questa regalità “dei tempi eroici”, si veda P. Carlier, La Royauté en Grèce avant Alexandre, Strasbourg, 1984, p. VII-VIII e p. 503-514.
  7. Si veda P. Carlier, “La notion de pambasileia dans la pensée politique d’Aristote”, in Aristote et Athènes, M. Piérart éd., Fribourg-Paris, 1993, p. 103-118.
  8. Su queste due nozioni, si veda infra.
  9. ἀπάτη (III, 5, 1278 a 39-40).
  10. IV, 12, 1297 a 7. Inoltre, questo inganno incoraggia la πλεονεξία, e quindi rovina la costituzione.
  11. Su questa definizione, si veda l’analisi di Ed. Lévy, “Politeia et politeuma chez Aristote”, in Aristote et Athènes, op. cit., p. 65-90.
  12. Su questa classificazione, si veda in particolare J. de Romilly, “Le classement des constitutions d’Hérodote à Aristote”, REG 72, 1959, p. 81-99, J. Bordes, Politeia dans la pensée grecque jusqu’à Aristote, Paris, 1982, p. 436-454, M.H. Hansen, “Aristotle’s Alternative to the Sixfold Model of Constitutions”, in Aristote et Athènes, op. cit., p. 91-101, e M. Ostwald, Oligarchia. The Development of a Constitutional Form in Ancient Greece, Stuttgart, 2000.
  13. Si veda per esempio G.E.M. de Sainte Croix, The Class Struggle in the Ancient Greek World, Londres, 1981, p. 72-73.
  14. Per un commento di questo testo fondamentale, si veda di recente E. Schütrumpf & H.J. Gehrke éds, Aristoteles Politik Buch IV-VI, Berlin-Darmstadt, 1996, p. 383-398.
  15. Ognuna di queste tre funzioni può esere divisa fra parecchi organi (la funzione deliberativa fra Assemblea popolare e Consiglio per esempio). Quindi, “organo” o “corpo” non sarebbero traduzioni adeguate. Però, secondo Aristotele, quando due o tre delle funzioni fundamentali sono nelle stesse mani, la costituzione è tirannica e fragile.
  16. Traduzione di Renato Laurenti, Laterza, 1973.
  17. C’è un altro elenco, ancora più preciso, nel capitolo VI, 8.
  18. M. Piérart, “Αἵρεσις et κλήρωσις chez Platon et Aristote”, in Aristote et Athènes, op. cit., p. 119-138.
  19. Κρίνειν vuol dire “scegliere”; la parola non ha sempre un senso giudiziario. Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Paris, 1968-1980, s. u.: “Le sens de juger a tenu une place importante en grec, mais en général κρίνω et ses dérivés ne présentent pas le sens précis et juridique de δικάζω”.
  20. Sull’εἰσαγγελία εἰς τὸν δῆμον ad Atene, cfr. M.H. Hansen, Eisangelia. The Sovereignty of the People’s Court in the Fourth Century B.C. and the Impeachment of Generals and Politicians, Odense, 1975, M.H. Hansen, The Athenian Assembly in the Age of Demosthenes, Oxford, 1987, p. 95-98 e 125-128. Il Dictionary of Greek poleis del Copenhagen Polis Center permetterà di studiare più precisamente le attribuzioni giudiziarie dell’Assemblea nelle città greche. Sulle comunità descritte dai poemi omerici e sulla Macedonia, si veda ultimamente P. Carlier, “Homeric and Macedonian Kingship”, in Alternatives to Athens, R. Brock & S. Hodkinson éds, Oxford, 2000, p. 264-266.
  21. Per esempio, J. Tricot éd., Aristote, La Politique, Paris,1962, dà al capitolo IV, 15 il titolo “Du pouvoir exécutif” e J. Aubonnet éd., Aristote, Politique, livres III et IV, Paris, 1971, dà all’insieme dei capitoli IV 14-16 il titolo globale “Des trois pouvoirs selon les constitutions”.
  22. “In ogni Stato vi sono tre generi di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile”. In forza del primo, il principe, o il magistrato, fa le leggi per un certo tempo o per sempre, e corregge o abroga quelle che sono già sono state fatte. In forza del secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve ambasciate, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In forza del terzo, punisce i delitti o giudica le controversie dei privati. Chiameremo quest’ultimo il potere giudiziario, e l’altro semplicemente il potere esecutivo dello Stato” (trad. B. Boffito Serra, Rizzoli, 1967).
  23. L’importanza della sovranità delle leggi è affermata nuovamente nel III, 11 della Politica. Tuttavia, Aristotele ammette che spesso è necessario cambiare le leggi per migliorarle. Per due interpretazioni differenti del pensiero di Aristotele sul cambio delle leggi, si veda J. de Romilly, La Loi dans la pensée grecque, Paris, 1971, p. 204-225, e J. Brunschwig, “Du mouvement et de l’immobilité de la loi”, RIPh 34, 1980, p. 512-540.
  24. III, 15-16. Cfr. P. Carlier, “La notion de pambasileia…”.
  25. IV, 5, 1292 b 5-10; IV, 6, 1293 a 30-34. Sull’oligarchia, si veda di recente M. Ostwald, Oligarchia…
  26. I testi sulla democrazia estrema (τελευταῖα) sono abbastanza numerosi. Si veda in particolare IV, 4; IV, 6; V, 9, 1310 b 26-35; VI, 2, 1317 b 30.
  27. Per un’analisi più dettagliata, si veda per esempio P. Zillig, Die Theorie der gemischten Verfassung in ihrer literarischen Entwicklung im Altertum und ihr Verhältnis zur Lehre Lockes und Montesquieus über Verfassung, Wurzburg, 1916, K. von Fritz, The Theory of the Mixed Constitution in Antiquity, New York, 1959, G.J.D. Aalders, “Die Mischverfassung und ihre historische Dokumentation in der Politica des Aristoteles”, in La Politique d’Aristote, XIes Entretiens de la Fondation Hardt, Genève, 1965, p. 199-244.
  28. Bisogna tuttavia sottolineare che, per Aristotele, ogni combinazione non è una media: la tirannide, per esempio, cumula i vizi della democrazia e dell’oligarchia (V, 10). Aristotele distingue tre tipi di mescolanza (μίξις) moderatrice. “Tre sono i principi determinanti la sintesi o mistione. Si possono cioè prendere le prescrizioni di entrambe le costituzioni, per esempio riguardo all’amministrazione della giustizia… un misthos per i poveri come nelle democrazie e un’ammenda per i ricchi che non partecipano come nelle oligarchie… È questo, dunque, un modo di abbinamento; un altro è prendere il medio di ciò che entrambe le costituzioni prescrivono – un censo medio per la participazione all’assemblea per esempio… In un terzo modo, si possono combinare i due ordinamenti prendendo alcune prescrizioni dalla legislazione oligarchica, altre da quella democratica” (IV, 9, 1294 a 36-1294 b 14).
  29. Aristotele, che critica severamente molti aspetti del sistema sociale e politico di Sparta, elogia la costituzione spartana per questa mistione di elementi democratici e oligarchici (II, 9, 1278 b 18-26; IV, 9, 1294 b 19-42).
  30. Occorre che vi sia un equilibrio fra i poteri istituzionali. Quando i ricchi ed i poveri hanno una forza equivalente, è un fattore di instabilità, perché entrambi sperano di dominare e tentano delle rivoluzioni (V, 4, 1304 a 38-1304 b 5).
  31. IV, 11, 1296 a 22.
  32. Per un’analisi approfondita del giudizio di Aristotele su Solone, si veda soprattutto P.J. Rhodes, A Commentary on the Aristotelian Athenaion Politeia, Oxford, 1981, p. 118-179.
  33. IV, 6, 1293 a 13-22.
  34. Aristotele fa soltanto una breve allusione all’aneddoto, che era famoso e ben noto dai suoi uditori.
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EAN html : 9782356134202
ISBN html : 978-2-35613-420-2
ISBN pdf : 978-2-35613-487-5
ISSN : en cours
Posté le 01/07/2022
8 p.
Code CLIL : 3385; 4031
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Licence ouverte Etalab

Comment citer

Carlier, Pierre (2022) : “La nozione di ἀρχή nella Politica di Aristotele”, in : Bouchet, Christian, Eck, Bernard, éd., Pierre Carlier, un esprit de finesse. Recueil d’articles, Pessac, Ausonius éditions, collection B@sic 2, 2022, 299-306 [en ligne] https://una-editions.fr/la-nozione-di-αρχη-nella-politica-di-aristotele/ [consulté le 01/07/2022].
Illustration de couverture • Vision de la fontaine Aréthuse (Syracuse), aquarelle originale (crédits des éditeurs, 2022).
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