Introduzione
Nella Puglia meridionale la facile disponibilità di argille adatte alla modellazione di forme ceramiche è elemento che nel corso dei secoli ha determinato lo sviluppo di un artigianato capace di produzioni destinate agli usi quotidiani ma anche di realizzazioni che si collocano in un ambito di pregio artistico.
Per quanto attiene all’età antica, fin dall’età del Ferro in tutta la Puglia meridionale è ben documentata la presenza di ceramiche fini riconducibili a forme di artigianato specializzato che si sviluppano parallelamente alla produzione domestica del vasellame ad impasto destinato alla conservazione delle derrate, alla cottura dei cibi ed al consumo individuale degli stessi1. In alcuni casi è documentata l’imitazione dei vasi importati dalla Grecia nella morfologia e nella decorazione2. Per il periodo compreso tra l’VIII e il VII secolo a.C. gli indicatori delle attività produttive, di difficile identificazione e spesso lacunosi, si riconoscono nei soli siti di Castelluccio presso Cisternino, Masseria Vicentino presso Grottaglie, Otranto e Vaste (fig. 1).
A partire dalla seconda metà del VI secolo a.C., nel quadro delle profonde trasformazioni del sistema insediativo della Messapia che assume un’organizzazione cantonale riferita alla gerarchia degli abitati3, è documentata la presenza di fornaci verticali destinate sia alla cottura dei laterizi che a quella del vasellame (fig. 2). Ad Oria, in particolare, è stata riscontrata la presenza di due aree distinte con raggruppamenti di strutture pirotecnologiche nel settore settentrionale dell’abitato4: sulla base del materiale rinvenuto negli scarichi ad esse collegati è stato possibile stabilire che in queste officine veniva prodotto gran parte del vasellame con decorazione a fasce destinato al santuario di Monte Papalucio. Sempre nell’ambito della fase arcaica emerge in maniera rilevante una produzione figurata al cui avvio può aver contribuito l’apporto di artigiani di provenienza greco-orientale5; essa è per la maggior parte incentrata sulla manifattura di idrie e trozzelle, spesso caratterizzate da soggetti mitologici poco comuni anche nella ceramografia attica6. Entrambe le forme sono fortemente connotative del ruolo della donna nella società messapica, al punto che le trozzelle, in particolare, assumono il ruolo di indicatore di genere nelle sepolture fino al III secolo a.C.7.
Ceramica messapica e spettroscopia Raman
Fin dal 2015 è stata avviata una preziosa collaborazione tra gruppi di ricerca dell’Università del Salento afferenti al Laboratorio di Archeologia Classica ed al Laboratorio di Chimica Fisica. Nello specifico, sono state effettuate indagini chimico-fisiche sui pigmenti decorativi della ceramica di produzione messapica, con spettroscopia Raman. Questa tecnica consente di identificare la struttura molecolare dei rivestimenti della ceramica, distinguendoli anche in presenza di colorazioni molto simili. Il principio di base prevede che illuminando la superficie di un determinato frammento ceramico tramite una sorgente laser, la lunghezza d’onda di quest’ultima venga modificata in seguito ad uno scambio energetico con i livelli vibrazionali delle molecole costitutive dei materiali che compongono l’oggetto investigato e secondo le cosiddette regole di selezione Raman; in tal modo è possibile registrare “spettri” specifici di ciascun composto, spesso indicati come fingerprint del materiale8.
Su frammenti di ceramica messapica a fasce ed a decorazione fitomorfa sono state osservate le bande di assorbimento relative agli ossidi di ferro contenuti nei pigmenti distinguendo nettamente le caratteristiche tecniche di quelli con colorazione rosso-arancio da quelli con colorazione bruna. La misurazione archeometrica non sembrerebbe aggiungere molto ad una semplice osservazione macroscopica dei manufatti antichi. Tuttavia, l’analisi dell’ansa di una trozzella del IV-III secolo a.C. proveniente da Oria mostra le grandi potenzialità nell’applicazione dei metodi chimico-fisici. Essa presenta una decorazione con motivo a foglie lanceolate realizzate con due diverse tonalità di colore (fig. 3): la spettroscopia Raman permette di affermare che questo fatto non è imputabile ad una diversa densità del pigmento, conseguenza di errore in fase di decorazione, bensì è il frutto di una scelta ponderata per cui l’applicazione di due pigmenti diversi per composizione determina colorazioni differenti tali da suggerire un effetto di chiaro-scuro o di lumeggiatura, ancorché invertita rispetto a quanto ci si aspetterebbe9.
Insediamenti e produzione nella Messapia del IV e III secolo a.C.
La fase compresa tra la metà del iv e la metà del III secolo a.C. mostra il progressivo strutturarsi degli insediamenti urbani del Salento messapico, inseriti in un complesso sistema cantonale con capoluoghi e centri secondari10 (fig. 4). In questo quadro si inserisce anche lo sviluppo dell’organizzazione dei processi produttivi in riferimento alle varie forme dell’artigianato11.
I contesti archeologici di tutto l’ambito regionale, inquadrabili nel periodo in esame, mostrano costantemente la presenza di una grande varietà di classi ceramiche ciascuna caratterizzata da uno specifico repertorio morfologico12. Limitatamente alle osservazioni macroscopiche, è certamente possibile riferire a produzione locale la suppellettile da mensa contraddistinta da corpo ceramico di colore chiaro, derivante da argille di tipo calcareo, in cui sono facilmente riconoscibili gli inclusi della medesima natura calcarea, unitamente a quelli silicei e ferrosi (in particolare granuli di bauxite)13. Queste caratteristiche tecniche si riscontrano costantemente su tutto il vasellame riconducibile alle seguenti classi: “ceramica messapica decorata e figurata”, “ceramica a fasce”, “ceramica a vernice bruna”, “ceramica comune acroma”14. Gli stessi attributi si riconoscono anche in un consistente nucleo di vasi a vernice nera; questi ultimi non si discostano troppo dagli esemplari riferibili alle officine tarentine se non per una qualità leggermente inferiore della vernice e per l’assenza di ingubbiatura15. In sostanza, dunque, la documentazione archeologica restituisce un quadro piuttosto ricco per quello che concerne il vasellame fabbricato ed utilizzato dai Messapi tra il IV e il III secolo a.C.16.
Tuttavia, un censimento degli indicatori di attività produttive rivela un numero di attestazioni piuttosto modesto e la situazione appare in contraddizione rispetto alla crescita degli insediamenti ed alla loro organizzazione, specialmente in considerazione del fatto che, in questo periodo, tutti i centri abitati vengono sistematicamente racchiusi da potenti circuiti murari17. Indubbiamente i dati non mancano ma appaiono estremamente lacunosi e la documentazione risulta di lettura ancor più difficile dal momento che spesso si riferisce a scavi anteriori agli anni ’90 del secolo scorso.
A Vaste è presente un gruppo di fornaci datate tra il IV e il III secolo a.C., ubicate in un settore dell’abitato al centro della grande area delimitata dalle fortificazioni, immediatamente a nord dello spazio destinato ai quartieri di abitazione18 (fig. 5). I dati disponibili sembrano indicare l’attestazione di almeno 7 strutture con camera di combustione a pianta ovale, dotata di pilastrino centrale per il sostegno del piano forato, e prefurnio19. Sebbene tutte le fornaci siano state riferite alla cottura della ceramica si deve segnalare che una recente revisione dei materiali provenienti dagli scavi non ha portato a riconoscere alcuna presenza di scarti o di altri indicatori di attività produttive riconducibili all’artigianato figulo. Altre fornaci, forse databili ad epoca più tarda (II s. a.C.), con scarti di lavorazione ed un frammento di matrice fittile provengono da un’area posta poche decine di metri più a sud20.
La tipologia di fornaci con camera di combustione a pianta circolare o ovale risulta attestata anche in altri insediamenti messapici quali Egnazia21, Muro Tenente22, Valesio23, Rocavecchia24 e Ugento25 (fig. 4). Le notizie relative ai ritrovamenti sono sempre molto modeste, tuttavia sembra possibile che le strutture vadano riferite, tendenzialmente, all’orizzonte cronologico compreso tra la fine del IV e il III secolo a.C.; esse dovevano essere destinate alla cottura di ceramiche fini o, in alternativa, a quella di laterizi. Non mancano indicazioni relative anche alla possibile produzione di vasi figurati e sovradipinti; tuttavia, anche in questo caso, non è disponibile alcuna prova in tal senso, come potrebbero essere gli scarti di fornace. Questi ultimi, in riferimento alla classe della ceramica a vernice nera, sono attestati nei soli casi di Egnazia e Valesio ai quali si deve accostare anche la documentazione dagli scavi presso Palazzo Vernazza a Lecce, dove sono stati rinvenuti anche alcuni distanziatori per fornace26.
A partire dal II secolo a.C. i dati relativi agli impianti pirotecnologici mostrano la diffusione di una nuova tipologia, quella a pianta rettangolare o quadrangolare. Il fenomeno assume proporzioni particolarmente significative in relazione allo sviluppo della produzione delle anfore commerciali brindisine e dunque in riferimento alle complesse dinamiche di riorganizzazione amministrativa ed economica del Salento nell’ambito dello stato romano27.
Gli impianti sono destinati ad una produzione su scala “industriale” e di conseguenza risultano localizzati in strettissima connessione con la viabilità e gli scali portuali, al fine di favorire l’approvvigionamento delle materie prime e la circolazione dei prodotti. Oltre alle attestazioni nel comprensorio di Brindisi28, fornaci destinate alla cottura di anfore commerciali sono documentate a San Cataldo, presso Lecce29, ed a Felline, presso Ugento30. Occorre segnalare che lo studio analitico della documentazione di Giancola ha permesso di stabilire che accanto all’attività principale di produzione dei contenitori da trasporto se ne svolgevano altre secondarie legate, in particolare, alle ceramiche fini31, con o senza rivestimento, ed alle terrecotte architettoniche32.
Nell’orizzonte cronologico successivo alla conquista romana del Salento rientrano anche altre attestazioni di impianti produttivi posti all’interno di insediamenti con continuità di vita rispetto alla fase messapica (fig. 4).
Ad Oria, una fornace con camera di combustione circolare a pilastrino centrale e prefurnio costruito con laterizi è stata riferita alla produzione di ceramica a pasta grigia33. Strutture datate tra il III ed il II/I secolo a.C. sono state identificate anche a Nardò34 e Alezio35, oltre a quelle già citate di Ugento36 e Vaste37, ma in nessuno di questi casi è realmente possibile stabilire quali classi di vasi venissero realizzate; né tanto meno è possibile ricostruire gli assetti delle officine al fine di avanzare ipotesi sull’organizzazione dei processi produttivi.
Indagini archeometriche
Come già anticipato, dunque, il quadro delle conoscenze sulle produzioni figule nella Puglia meridionale tra la tarda età classica e l’età ellenistica risulta di lettura estremamente complessa in ragione della sua lacunosità.
Tuttavia, dati di notevole interesse possono essere desunti dalle analisi archeometriche. A seguito di una prima sperimentazione, precedentemente richiamata, sono state effettuate ulteriori indagini con spettroscopia Raman su un consistente numero di campioni di ceramica con decorazione a fasce ed a vernice bruna databili tra il VI ed il IV/III secolo a.C.38 (fig. 6). Tali esami consentono di definire le caratteristiche chimico-fisiche della decorazione e, sulla base di queste, ipotizzare le condizioni di cottura dei vasi in riferimento al tipo di ambiente ed alla temperatura39.
Gli spettri di alcuni campioni (nn. 13, 15, 16, 19) mostrano la presenza di un ossido di ferro a cui è imputabile la colorazione rossiccia del pigmento con cui è realizzata la decorazione: l’ematite (α-Fe2O3)40 (fig. 7).
Tuttavia, si riscontrano anche i segnali di altri ossidi di ferro come la magnetite (Fe3O4) o la maghemite (γ-Fe2O3)41. La presenza di questi ultimi minerali deve essere legata alle temperature o all’ambiente di cottura del corpo ceramico, dal momento che l’ematite, all’aumentare della temperatura, può parzialmente trasformarsi in magnetite e/o maghemite42. D’altro canto, le alte temperature possono determinare un elevato grado di disordine nella struttura cristallina dell’ematite, tanto da generare confusione nella lettura e nella comprensione degli spettri43.
Per il campione 14 sono stati registrati due spettri Raman in punti diversi della superficie del vaso: essi hanno evidenziato la presenza di differenti ossidi di ferro. Uno di essi può essere riconosciuto come ematite, mentre l’altro può essere attribuito ad una miscela di differenti ossidi di ferro, in cui risalta la maghemite44; a tale minerale si deve ricondurre la colorazione bruna della decorazione.
Il campione 18 presenta una coppia di fasce in differenti tonalità di bruno. Gli spettri Raman ottenuti da ciascuna fascia appaiono simili ai segnali della maghemite, in seguito alla cottura di ferridrite naturale a 700C45: questo è un minerale molto comune nelle terre rosse del Salento dove è presente in associazione con la bauxite46 (fig. 8).
La coppetta monoansata n. 20 presenta la superficie interna completamente verniciata. Anche in questo caso gli spettri ottenuti con la tecnica Raman47 sono confrontabili con gli spettri di riferimento dell’ematite e i risultati risultano sostanzialmente sovrapponibili in riferimento a campioni provenienti da siti differenti ed anche piuttosto distanti tra di loro quali Oria, Otranto e Castro48.
Alla luce dei dati sin qui illustrati in forma sintetica è possibile presentare alcune considerazioni.
Ematite, maghemite, magnetite e le altre forme di ossidi e idrossidi di ferro sono indicativi di precisi valori di temperatura di cottura e di specifiche condizioni dell’ambiente. Essi, inoltre, costituiscono l’indizio per riconoscere le materie prime con cui venivano approntati i pigmenti per la decorazione ed il rivestimento dei vasi. Infatti, attraverso la caratterizzazione delle terre è possibile distinguere le ocre rosse che contengono diverse forme di ossidi di ferro, tra cui l’ematite, e le ocre gialle che includono ossidi-idrossidi di ferro, come la goethite e la limonite49. Le ocre rosse naturali durante la cottura in un ambiente ricco di ossigeno risultano stabili sino a temperature prossime a 1200C, superate le quali si verifica la decomposizione termica degli ossidi di ferro in magnetite associata al passaggio dalla colorazione rossa a quella bruno-nerastra50, ma questa temperatura è estremamente critica nei processi produttivi della ceramica51; d’altro canto esiste la possibilità che già intorno a 900C si determini la parziale trasformazione dell’ematite in maghemite/magnetite, cosa che non comporta alcuna alterazione del colore del pigmento52 (fig. 9). Le ocre gialle contenenti ossidi e idrossidi di ferro durante la cottura in ambiente ossidante si convertono in ematite già intorno a 700C e, di conseguenza, il pigmento assume colorazione rossastra53.
Riassumendo si deve rimarcare che l’individuazione di ematite nei pigmenti usati per la decorazione dei vasi a fasce ed a vernice bruna è indicativa della cottura in ambiente ossidante ma anche dell’utilizzo, indifferentemente, di ocre rosse o gialle naturali come materia prima di partenza. La contemporanea presenza di ematite e magnetite/maghemite diventa parametro indicativo della temperatura di cottura dei manufatti ceramici, indicando un valore superiore a 900C, ma questa considerazione andrà sottoposta ad ulteriore verifica sperimentale.
Non si può escludere che la magnetite sia presente nelle argille sin dall’origine, tuttavia la sua formazione si può verificare per decomposizione dell’ematite ad elevate temperature in ambiente ossidante, o anche per effetto di una riduzione a temperature superiori a 900C. Per quanto riguarda la maghemite essa può formarsi in ambiente ossidante partendo da ossidi-idrossidi di ferro: la lepidocrocite naturale in ambiente ossidante a 400C si trasforma in maghemite, ma la temperatura è troppo bassa per permettere la adeguata cottura di un corpo ceramico; aumentando la temperatura del processo si ha la trasformazione in ematite; infine la ferridrite in ambiente ossidante a 700C si trasforma in maghemite. Una contemporanea presenza di ematite e maghemite può essere indicativa, dunque, di cottura in ambiente ossidante a 700-800C (fig. 9).
La capacità di gestire il funzionamento delle fornaci per ceramica attraverso il sistema dell’alternanza tra ambienti ossidanti e riducenti è ben nota per quello che riguarda le officine greche; se ne può dunque inferire un’equivalente consapevolezza da parte degli artigiani messapici già a partire dal VI secolo a.C.
Vasi con decorazione realizzata sulla base delle ocre rosse naturali venivano cotti in atmosfera ossidante con tiraggio e ricircolo di aria ad una temperatura che raggiungeva i 900C: in tal modo gli ossidi di ferro si trasformavano in ematite. In una seconda fase la chiusura della fornace determinava un’atmosfera riducente e questa, a temperature superiori a 880C, favoriva la trasformazione dell’ematite in magnetite fornendo colorazione grigia scura ai rivestimenti. Una colorazione brunastra è imputabile alla formazione di maghemite.
Conclusioni
La capacità e la consapevolezza tecnica dei ceramisti e soprattutto dei fornaciai messapici possono essere considerate esito naturale di un artigianato strettamente legato a quello greco coevo e in gran parte da esso derivante, tanto che è possibile ipotizzare che artigiani greci siano stati attivi all’interno delle comunità messapiche della Puglia meridionale, operando nell’ambito della produzione ceramica, come precedentemente richiamato54, e nella realizzazione di terrecotte architettoniche: in particolare è indicativa in tal senso una sima fittile da Cavallino che mostra caratteristiche tecniche e stilistiche sovrapponibili a quelle di prodotti corciresi55.
Ma un dato ancor più interessante viene dalla possibilità di confronto tra le tecniche di produzione del vasellame dell’età del Ferro e quello delle fasi di età classica ed ellenistica. Nelle epoche più antiche, sempre sulla base delle analisi condotte con spettroscopia Raman, è possibile affermare che la decorazione a vernice bruna fosse il frutto di processi basati sia sulla capacità di modificare i rapporti stechiometrici negli ossidi di ferro, inducendo la formazione di maghemite ed ematite, che sull’impiego di pigmenti contenenti una miscela di ossidi di ferro e manganese, come appare particolarmente evidente negli spettri dei campioni di ceramica matt-painted provenienti dal sito di Vaste. E’ poi da sottolineare che la presenza degli ossidi di ferro e manganese nella forma individuata deriva dalla cottura ossidante di ossidi di manganese e ferro purché in quantità quasi uguali, confermando ulteriormente la perizia costruttiva degli artigiani56. Una simile preparazione, in assenza di ossidi di manganese puri, che non sono presenti nel Salento, prevede una “ricetta” basata su terre brune ricche di ossidi di manganese a cui venivano aggiunte terre rosse ricche di ferro prima della cottura. Nel Salento le terre con manganese non sono affatto comuni, anzi, per quanto noto in bibliografia, si limitano, sostanzialmente, ad un’area presso torre Fiumicelli a nord di Otranto57; di conseguenza si deve ipotizzare che gli artigiani della ceramica matt-painted avessero chiara consapevolezza delle fonti di approvvigionamento della materia prima da cui ricavare i pigmenti per decorare i vasi. Col passare del tempo lo sviluppo delle conoscenze pirotecnologiche, cosa in parte imputabile al contatto con i Greci, consentì il miglioramento dei processi produttivi: i fornaciai assunsero coscienza delle dinamiche necessarie ad ottenere colorazioni brune e rosse dei rivestimenti partendo da terre rosse o gialle, entrambe disponibili in tutta la regione e molto più facilmente accessibili rispetto alle terre brune. Il più rilevante effetto derivante dall’acquisizione di conoscenze empiriche riguardò la possibilità di gestire l’ambiente di cottura in riferimento all’atmosfera ossidante o riducente così da ottenere vasellame con decorazione bruna senza far ricorso, necessariamente, alle rare argille contenenti ossidi di manganese.
A partire dal tardo VI secolo e, soprattutto, tra il IV ed il III secolo a.C. i processi produttivi vennero profondamente migliorati consentendo di realizzare un maggior numero di vasi, di buona qualità, nel minor tempo possibile e con minimo dispendio nell’approvvigionamento di materie prime.
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- Slattery, J.C., Peng, K., Gadalla, A.M. e Gadalla, N. (1995): “Analysis of Iron Oxidation at High Temperatures”, Industrial & Engineering Chemistry Research, 34, 3405-3410.
- Yntema, D. (1991): “Le ceramiche e l’artigianato del Salento tra l’età del Ferro e la romanizzazione”, in: ACMG 30, 139-183.
- Yntema, D. (2001): Pre-Roman Valesio. Excavations of the Amsterdam Free University at Valesio, Province of Brindisi, Southern Italy, 1, The Pottery, Amsterdam.
- Yntema, D. (2013): The Archaeology of South-East Italy in the First Millennium BC. Greek and Native Societies of Apulia and Lucania between the 10th and the 1st Century BC, Amsterdam Archaeological Studies 20, Amsterdam.
Notes
- Per una sintesi sulle produzioni fini nella Puglia meridionale tra l’età del Ferro e l’età arcaica si rimanda a Mastronuzzi 2019; per le ceramiche ad impasto si veda: Yntema 2001, 21-31; Mastronuzzi 2013, 304-306.
- Si veda in particolare il boccaletto da Cavallino: D’Andria 1988, fig. 638.
- Si veda: D’Andria 1988, 659-666; Id. 1991, 422-435; Id. 1996, 411-424; Burgers 1998, 195-207; Yntema 2013, 115-164.
- Si veda in sintesi: Mastronuzzi 2013, 22, fig. 5 (con bibliografia precedente).
- Si vedano, in part., le osservazioni in D’Andria, ed. 1990, 260.
- Cfr. D’Andria 1988, 663-664.
- Giannotta & Melissano 2010, 292.
- McHale 1998; Ferraro et al. [1994] 2003.
- La parte centrale di una foglia di ulivo colpita dalla luce appare più chiara rispetto ai margini che sono leggermente ripiegati verso il basso.
- D’Andria 1988, 686-711; Id. 1991, 443-478; Id. 1996, 427-438; Lamboley 1996; Burgers 1998, 225-263; D’Andria 1999; Yntema 2013, 165-235.
- Cfr. in part.: Yntema 1991, 167-182; Lamboley 1996, 401-409; Yntema 2013, 213-224.
- Per una presentazione analitica di classi e forme ceramiche attestate nell’insediamento di Valesio si veda: Yntema 2001, 63-324.
- Si confrontino le analoghe osservazioni effettuate in relazione al vasellame proveniente dal luogo di culto di Monte Papalucio a Oria (Mastronuzzi 2013, 63-65).
- Sulla definizione delle classi ceramiche nel Salento preromano: Caggia & Melissano 1997, 100-101; si veda anche Mastronuzzi 2013, 267.
- Cfr. le osservazioni sulla “Apulian Black Gloss” da Valesio in Yntema 2001, 140-142 (in part. possono essere considerate di produzione locale le cd. “Fabric” 4 e 5).
- Per la selezione di materiali dagli abitati di Vaste e Muro Leccese: Mastronuzzi & Melissano, ed. 2015, 63-65; Giardino & Meo, ed. 2016, 65.
- Sulle complesse dinamiche storiche e socio-economiche connesse al fenomeno delle cinte murarie negli insediamenti messapici del IV e III secolo a.C. si veda: Lamboley 1996, 346-361; Frisone 2004; Burgers 2004; Lamboley 2004; Semeraro 2009; Mastronuzzi 2018, 13.
- Si veda ora Mastronuzzi et al. 2019, 88 (con bibliografia precedente).
- Cuomo di Caprio Ia (Cuomo di Caprio 2007, 558).
- Mastronuzzi et al. 2019, 97, 99. Uno dei forni è inquadrabile nel tipo Ib della classificazione Cuomo di Caprio (fornace a pianta ellittica/rotonda con muretti assiali: Cuomo di Caprio 2007, 558-559).
- Lamboley 1996, 26-27; si veda anche Fioriello, ed. 2012, 388.
- Lamboley 1996, 95.
- Boersma & Yntema 1989, 144, figg. 13-14.
- Lamboley 1996, 196.
- Nell’area centrale dell’abitato sono note una fornace destinata alla cottura di ceramica (piazza Colonna: Ciongoli 1991, 294) ed un’altra a quella di laterizi (via Garibaldi: Ciongoli 1996, 78) riferite genericamente ad età ellenistica.
- Polito 2015, 225.
- In sintesi: De Mitri 2010, 29-38; Yntema 2013, 267-276. Nel dettaglio del comprensorio di Brindisi si veda Aprosio 2008.
- In part.: Manacorda & Pallecchi, ed. 2012; Palazzo 2013.
- Masseria Ramanno: De Mitri 2010, 89 (con bibliografia precedente).
- De Mitri 2010, 102 (si veda anche ibid., p. 103: Sorgente Pozziche).
- Manacorda & Pallecchi, ed. 2012, 207-280.
- Manacorda & Pallecchi, ed. 2012, 187-203.
- L’area del ritrovamento non è molto distante dal settore con le fornaci di età arcaica: Mastronuzzi 2013, 28, fig. 10 (con bibliografia precedente).
- Rinvenimento nell’area meridionale del centro, in corrispondenza dell’attuale Piazza Giovanni XXIII: Alessio 2002-2003, 169-171.
- In questo caso si tratta di due fornaci rinvenute tra il 1988 e il 1990; esse sono collocate nel settore orientale dell’insediamento e vengono datate tra II e I secolo a.C.: Ferrari & Scardozzi 2016, 129, nn. 79-80.
- Si veda supra, nota n. 24.
- Si veda supra, nota n. 19.
- Si tratta complessivamente di 40 esemplari ceramici provenienti dai siti di Oria, Otranto, Castro e Vaste; tra essi figurano anche alcuni vasi con decorazione matt-painted databili tra l’VIII e il VII secolo a.C. In particolare, in questa sede, si richiama l’attenzione sui seguenti campioni inquadrabili cronologicamente tra il iv e il iii secolo a.C.: n. 13 – orlo di idria a fasce; n. 14 – orlo di olla a fasce; n. 15 – fondo di idria a fasce; n. 16 – parete di forma chiusa di picc. dim. a fasce; n. 18 – parete di forma chiusa di picc. dim. a fasce; n. 19 – parete di forma chiusa di picc. dim. a fasce; n. 20 – coppetta monoansata a vernice bruna.
- Levi 2010, 105, 110, 123.
- Legodi & De Wall 2003; il segnale a 1320 cm-1 può essere attribuito al modo ottico longitudinale (LO) 2Eu (660 x 2 = 1320 cm-1) Raman attivo dell’ematite (Sang-Heon & Duffy 2002). In uno spettro di ematite sintetizzata (synthetic ematite) sono visibili tutti i picchi caratteristici dell’ematite a 225, 245, 291, 411, 500, 611 e 1321 cm−1 (Hanesch 2009, fig. 2).
- Cfr. De Faria et al. 1997.
- Matthews 1976; Gaviria et al. 2007.
- Bersani et al. 1999; Aaron & Heather 2010.
- Il segnale a 700 cm-1 è attribuibile alla vibrazione di stretching simmetrico del legame Fe-O della maghemite (Mendili et al. 2011) e la presenza di questo minerale è confermata da altri due segnali a 496 cm-1 e 346 cm-1: il primo è riferibile alla vibrazione di bending asimmetrico del legame Fe-O, mentre il secondo è ascrivibile alla vibrazione di stretching simmetrico del legame Fe-O (De Faria et al. 1997); lo spettro in esame può essere confrontato con quello di una miscela di maghemite e magnetite sintetizzata in laboratorio (Chowdury et al. 2012).
- Graves et al. 1988. I segnali a 730 cm-1 e 670 cm-1 possono essere attribuiti alla vibrazione di stretching simmetrico del legame Fe-O della maghemite (Sendova et al. 2005): la presenza di questo minerale sembra essere confermata da altri due segnali a 502 cm-1 e 340 cm-1, il primo riferibile alla vibrazione di bending asimmetrico del legame Fe-O, il secondo alla vibrazione di stretching simmetrico del legame Fe-O (De Faria et al. 1997). I segnali poco intensi a 226 cm-1, 300 cm-1 e 410 cm-1 possono derivare da una parziale trasformazione della maghemite in ematite (Hanesch 2009).
- Durn 2003, 89.
- I segnali a circa 220 cm-1 e 500 cm-1 possono essere attribuiti alla vibrazione di stretching simmetrico del legame Fe-O (Chamritski et al. 2005); quelli a circa 295 cm-1, 410 cm-1 e 612 cm-1 possono essere attribuiti alla vibrazione di bending simmetrico del legame Fe-O (Legodi & De Wall 2006; Jubb & Allen 2008); il picco a circa 662 cm-1 può essere attribuito alla vibrazione di stretching simmetrico del Fe-O di altri ossidi di Ferro come la magnetite (Fe3O4) o la maghemite (γ-Fe2O3) (De Faria et al. 1997).
- Campioni nn. 36-40.
- Bikiaris et al. 1999.
- Slattery et. al. 1995.
- Levi 2010, 119-122.
- Paunova et. al. 2014.
- Hanesch 2009.
- Si veda supra, nota 5.
- D’Andria 1977, 545, fig. 17 a-b; Mastronuzzi 2005, 57-58; si vedano anche le sime di Ugento (D’Andria 1977, 551, fig. 18a) e Castro (D’Andria 2013, 411-413) e le antefisse a palmetta di Cavallino e Valesio (Yntema 1991, 160, fig. 11).
- Paunova et. al. 2014.
- Mastronuzzi & Sansò 2014, 164.