Il Progetto Ager Lucerinus. Contributi all’archeologia dei paesaggi della Daunia
Il Progetto Ager Lucerinus-Montecorvino nasce nel 2006, in collaborazione tra il Laboratorio di Cartorafia dell’Università di Foggia1 e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Provincie di BAT e FG, con l’intento di ricostruire la storia dei paesaggi della Daunia in tutte le fasi di occupazione, partendo dal presupposto che uno degli strumenti più efficaci per la salvaguardia e la tutela del territorio è la sua conoscenza e con la consapevolezza che solo attraverso la ricostruzione storica e ambientale dei paesaggi antichi si può ottenere una pianificazione corretta del paesaggio attuale e soprattutto progettare quello del futuro2.
La ricerca ha come base una indagine di survey archeologico focalizzato sul territorio dell’antica colonia latina di Luceria, per la ricostruzione del popolamento dalla Preistoria al Medioevo. Le indagini hanno finora interessato un ampio comprensorio tra la Valle del Fortore e il Tavoliere, in particolare i comuni di Lucera, Pietramontecorvino, Motta Montecorvino, Volturino, Casalnuovo Monterotaro, Castelnuovo della Daunia, Casalvecchio di Puglia, Biccari, Roseto Valfortore, Celenza Valfortore che partecipano sia con risorse che come comunità3 (fig. 1).
L’obiettivo principale è la realizzazione della carta archeologica che è alla base di ogni elaborazione storico-archeologica ed economica di un territorio. Un ulteriore obiettivo è quello di offrire un valido strumento alla Soprintendenza per il controllo e la tutela del territorio: infatti, le carte archeologiche elaborate per il Progetto costituiscono una base per la tutela di quest’area continuamente minacciata dalla diffusione di impianti eolici. Il metodo adottato è quello del “Progetto Forma Italiae – Carta Archeologica d’Italia”4, che si avvale di una molteplicità di fonti (bibliografiche, archivistiche, epigrafiche, archeologiche dirette, geomorfologiche, ecc.) e si basa sulla localizzazione georeferenziata e rilevata di tutti i rinvenimenti e di tutte le tracce di attività umana2.
Alla raccolta del materiale aereofotografico disponibile per la lettura e l’interpretazione delle tracce si è affiancata l’acquisizione di dati tramite l’utilizzo di droni. Particolarmente soddisfacenti sono stati i dati in post processing trattati tramite tecnica LIDAR, in funzione predittiva dei dati.
Nei comprensori finora indagati sono stati individuati oltre 1400 punti archeologici, distribuiti cronologicamente dalla Preistoria al Medioevo. La maggior parte degli insediamenti è ricostruita sulla base della presenza delle aree di dispersione del materiale e i frammenti sono molto spesso anche di dimensioni ridotte. La notevole mole di dati raccolti ha permesso la realizzazione di grafici quantitativi, relativi alle produzioni dei materiali ed alla ricostruzione delle circolazioni e dell’organizzazione economica.
Nel corso di queste indagini sono stati raccolti oltre 35000 frammenti ceramici riconducibili a diverse classi ceramiche e relativi a fasi che abbracciano un arco cronologico molto ampio, dal Neolitico fino all’età Medievale; la classe più rappresentata, ma anche con maggiori difficoltà interpretative, è quella delle ceramiche comuni. In questa sede sono presi in considerazione i materiali compresi tra l’età repubblicana e quella tardoantica cercando di offrire un quadro relativo alle produzioni e alla loro circolazione.
La ceramica a vernice nera
Il campione di ceramica a vernice nera esaminato è costituito da 443 frammenti. La bassa percentuale di conservazione e l’estremo dilavamento hanno reso complesso il lavoro di catalogazione dei frammenti che, comunque, ha consentito di rilevare alcuni dati interessanti.
Dal punto di vista funzionale, la frazione di cui è stato possibile individuare la forma è costituita in prevalenza da vasi potori che rappresentano il 48,35% del totale; seguono piatti di vario sviluppo e cronologia, presenti con il 40,4% del totale. Sono attestate anche patere, olpette di piccole dimensioni, pelikai e thymiatheria con percentuali comprese tra il 2,65 e lo 0,66%.
L’orizzonte cronologico si estende dal V al I secolo a.C., con maggiori addensamenti tra IV e III secolo a.C. Ad una fase più antica caratterizzata in prevalenza da skyphoi Morel 43145 segue, nel IV secolo a.C., un ampliamento del repertorio formale, con la presenza di skyphoi 4311, olpette 5335, coppette 2431 e 2433 e coppe monoansate 6231. Tra fine IV e III secolo a.C. sono attestati gli skyphoi 4373, varie serie di piatti, le oinochoai 5112 e le patere 2233. Il gruppo delle coppe si arricchisce, tra III e II secolo a.C., delle serie 2646 e 2978, cui si aggiungono piatti con orlo a tesa 1310-1320, la cui varietà aumenta ulteriormente con la serie 2263 o 2265 nel II secolo a.C. Dubitativamente è possibile assegnare al I secolo a.C. un piede 221b3 ed una coppa 2650.
Nel campione esaminato è interessante rilevare la presenza di 37 frammenti malcotti, complessivamente rinvenuti in tre macroaree dislocate ad ovest di Lucera.
Alla macroarea settentrionale fanno riferimento i frammenti individuati nelle località Chiancone, Torretta e Canneti. Tra queste si segnala in particolare la zona di Chiancone che, con 22 frammenti, detiene quasi il 60% delle attestazioni di malcotti dell’intera classe in esame; inoltre, nella stessa località sono stati rinvenuti anche due frammenti malcotti rispettivamente in ceramica a fasce e in matt-painted e alcune strutture legate alla produzione di varie classi ceramiche6. Nella macroarea sud-occidentale rientrano i rinvenimenti di Selva Piana, Selva Piana-Contrada Chiattone e Masseria D’Orsi, tra cui si distingue la prima per numero di attestazioni. Dei 37 frammenti malcotti di ceramica a vernice nera individuati, soltanto tre risultano topograficamente isolati rispetto agli altri e più vicini al centro urbano di Luceria; il toponimo parlante della loro macroarea di rinvenimento, “i Fornelli”, offre un suggerimento diretto sulle attività produttive a cui l’area stessa era votata.
Tutti i frammenti malcotti individuati presentano viraggi cromatici della vernice al rosso e al bruno; soltanto in due casi è stato possibile riscontrare anche microfessurazioni della vernice7.
In prevalenza, i frammenti malcotti provengono da pareti. Le poche parti caratterizzante rinvenute in loc. Chiancone e identificabili sotto il profilo morfologico appartengono a varie serie di skyphoi complessivamente databili tra il V e l’inizio del III secolo a.C., a coppe – emisferica 25388, su piede 1172 e monoansata 6231 – ed a coppette concavo-convesse 2433. Il rinvenimento di frammenti malcotti di coppe 2538 e 1172 può essere considerato sia come esito della commercializzazione di manufatti difettosi, ma privi di danni strutturali tali da impedirne l’utilizzo, sia come prodotto di fenomeni imitativi di ambito locale, peraltro già noti nel comparto per il repertorio formale di origine etrusco-laziale9. Altri frammenti malcotti, invece, possono più facilmente essere considerati indicativi della vicinanza di luoghi di produzione, ancora da individuare, alle zone di rinvenimento. Va ricordato, infatti, che queste ultime si inseriscono in un ampio comparto in cui numerosi sono i siti coinvolti nella produzione di ceramica a vernice nera, tra cui Lucera – la più vicina sotto il profilo topografico –, Faeto loc. Frassinelle, San Paolo di Civitate-Tiati-Teanum loc. Marana della Defensola, Larinum, Casacalenda, Gildone, Ordona, Salapia, Canosa, Cannae, Venusia, Monte Vairano, Casalduni loc. Vaglie e Benevento loc. Cellarulo10 (fig. 2).
Sigillata italica
La produzione e circolazione di TSI, nel territorio della Daunia, risulta essere allo stato attuale della ricerca un argomento poco noto ed indagato. Tale produzione ceramica, iniziata a partire dal 30 a. C. per cambiamenti di tipo tecnologico e sociale, generati con tutta probabilità dal trasferimento di vasai dall’Oriente, futuri produttori di sigillata italica – tra tutti il liberto Marcus Perennius Tigranus – e dal passaggio dalla vernice nera alla rossa, necessitava di una notevole organizzazione del lavoro di tipo industriale11. Pertanto, doveva esservi una sorta di cooperazione tra centri produttivi maggiori e minori in tutto il territorio, ad esempio tra i centri maggiori di età romana come Canosa, Ordona, Venosa, e i minori come Lucera, dal reperimento delle risorse per l’alimentazione dei forni, alla realizzazione delle matrici da parte dei vasai, da diffondere e far circolare. In riferimento al territorio dauno, nell’ambito di questo progetto, la produzione di nostro interesse è costituita da circa 300 esemplari estremamente frammentari e si può inserire all’interno della cd. “sigillata adriatica”, di cui i maggiori centri produttivi risultano essere la vicina Herdonia12 e Corfinium13 in Abruzzo. Tra questi è stato possibile riconoscere tipologia e datazione certa per circa 50 frammenti databili tra la seconda metà del I secolo a. C. ed il pieno II secolo d. C. dove si attestano in particolare coppe tipo Conspectus 22, 25, 33 e 36 e piatti Conspectus 2-3. Oltre al gran numero di frammenti in TSI liscia con semplici appliques a doppia voluta (coppette emisferiche Conspectus 33), spiccano frammenti di TSI decorata a rilievo con motivi floreali e vegetali anche complessi, costituiti da gigli intervallati da reticolo incrociato formante rombi con festoni doppi, di chiara ispirazione orientale/megarese, ma anche motivi figurati, come una splendida figura maschile forse interpretabile come arciere o come suonatore di flauto rivolto verso sinistra; quest’ultimo, in base alle caratteristiche iconografiche e soprattutto tecnologiche, ovvero la vernice rossa brillante e l’impasto molto depurato di colore rosato chiaro, può essere riconducibile ad una produzione di Perennius Tigranus, di cui alcuni esemplari sono giunti in Italia meridionale (fig. 3). Tra i frammenti bollati, perlopiù in cartiglio rettangolare o circolare semplice o su due righe, registriamo la presenza di schiavi e liberti legati alle produzioni di tale ceramica fine da mensa in questo territorio, quali Titus Rufrenus Rufo (prima metà i s. d.C.), Chres (10 a.C.-10 d.C.) e Verna (15 a. C.-età augustea, noto peraltro in un’iscrizione da Pietramontecorvino come Cai libertus, loc. Coppa di Cirinella14). Si segnala, infine, una attestazione di ambito urbano particolarmente significativa15: si tratta di un piatto, conservato per il 50%, tipo Conspectus B1 e Goudineau 12 b, recante sul fondo interno un bollo in cartiglio rettangolare semplice molto frammentario e sul fondo esterno un graffito in scrittura maiuscola corsiva con la sigla VET, databile all’età protoaugustea, che confermerebbe la vocazione residenziale della struttura individuata16.
La presenza di graffiti su fondi di vasi in sigillata, indice di una volontà di personalizzazione della ceramica domestica, non è molto frequente ma è attestata nella vicina Ordona con sigle riferibili ad elementi onomastici, come potrebbe essere nel nostro caso. Questo dato proverebbe la presenza di élites locali a Lucera e nel suo territorio. Tale materiale può aprire la strada per svolgere considerazioni più dettagliate volte ad un approccio di studio sulla diffusione e circolazione della TSI sia nelle rotte dell’entroterra che in quelle costiere, partendo dai centri di maggiore produzione, quali Ordona, Canosa e Venosa, a cui il territorio lucerino potrebbe certamente essere legato, sulla scorta degli studi già in corso da anni sulla circolazione e produzione di ceramica fine da mensa nella Puglia meridionale e nel basso Adriatico.
Sigillata Africana, Sigillata Focese
I dati presentati in questa sede sono pertinenti ad un campione di materiali ceramici di età medio-imperiale e tardoantica. La presenza di sigillata africana fine da mensa e da cucina rappresenta il 5% (1900 frammenti, fig. 4) rispetto al totale.
Predominante tra i frammenti diagnostici risulta la presenza delle produzioni A e D.
La sigillata africana databile alla media età imperiale (produzione A) presente nel territorio indagato è caratterizzata da coppe Hayes 9A-Lamb. 2a, che risultano la forma più rappresentata nel campione analizzato17 da Lamb. 7a, da Hayes 31, da Hayes 44-Lamb. 35, 35bis, da Hayes 8A-Lamb. 1b, da Hayes 8B-Lamb. 1c, dai piatti Lamb. 3b, Lamb. 9b, dalle coppe Hayes 14A e dai piatti Hayes 27. La produzione A/D è attestata da due frammenti riconducibili alla scodella Hayes 3218. Le attestazioni della produzione C sono rappresentate dalle scodelle Hayes 50A, da un frammento riconducibile alla forma Hayes 53A e da un frammento di Hayes 84.
La produzione D, che registra il maggior numero di frammenti, è caratterizzata dalla diffusione e indiscussa predominanza delle Hayes 61 nelle tre varianti A (inizi-seconda metà V s. d.C.), B (V s. d.C.)19 e C (metà-seconda metà V s. d.C.). È presente un frammento di Hayes 67 e Hayes 58, diverse scodelle Hayes 50B e le più tarde coppe e scodelle Hayes 91D, Hayes 80B/99 e, infine, le Hayes 104 e 105.
La predominanza delle Hayes 61, prodotto di grande successo al punto da ispirare gli artigiani locali20, e la buona percentuale di presenze di Hayes 50B sono state messe in evidenza anche in altri contesti della Puglia settentrionale, in particolare ad Herdonia e a San Giusto21.
Pochi sono i frammenti diagnostici di ceramica da cucina africana22. Si tratta dei tegami Lamb. 10 a/ Hayes 23B (dalla prima metà del II alla fine IV-inizi V s. d.C.), le scodelle Hayes 181D (seconda metà IV-prima metà V s. d.C.), Hayes 181A (fine i-prima metà II s. d.C.), le pentole Michigan I, figg. I-II, n. 12 (fine IV-inizi V s. d.C.), delle casseruole Ostia III 267 = Hayes 197 (dalla prima metà del II alla fine IV-inizi V s. d.C.) e un piatto/coperchio Hayes 185 (prima metà del III s. d.C.). Molte di queste forme sono documentate anche in altri contesti della Puglia settentrionale, come Herdonia23 e Salapia24.
La presenza di ceramica d’importazione orientale, seppur in percentuale minima (27 frammenti), è testimoniata dall’individuazione di frammenti ceramici identificabili con le Late Roman C Ware o sigillata microasiatica (focese). Si tratta, nello specifico, della scodella Hayes 3 nelle sue varianti B (460-475 d.C.), C (460-475 d.C.), F (VI s. d.C.) e H (VI s. d.C.).
I dati esposti confermano il grande successo del vasellame fine da mensa africano anche nei territori interni e il suo ruolo centrale sui mercati in età tardoantica, sostanzialmente senza concorrenti nel contesto dei traffici commerciali delle importazioni, almeno fino agli inizi-metà del V secolo d.C25.
La presenza di LRC ware è significativa, nonostante il numero minimo di attestazioni nel contesto preso in esame: come già evidenziato in altre aree26, l’importazione di vasellame focese è ben rappresentata soprattutto in insediamenti litoranei27 dove, a partire dal V secolo d.C., risulta presente in quantità tali da poter essere considerato diretto concorrente del vasellame africano28. Nelle aree interne, probabilmente per questioni legate alle modalità di distribuzione del prodotto o semplicemente al gusto, risulta scarsamente presente29. Tuttavia, la sua presenza, seppur in quantità scarse, è indizio di collegamenti di un territorio interno con i circuiti commerciali che, a partire dal IV-VI secolo d.C., si svilupparono tra l’area adriatica e i centri produttori dell’Asia Minore30.
Anfore
I contenitori da trasporto indispensabili per definire aspetti di natura produttiva e quindi sociale risultano utili per tracciare la storia economica del comparto in cui erano in uso.
La disamina dei materiali di seguito riportati è relativa ad una realtà di “confine”, per alcuni versi “periferica” ovvero il margine settentrionale della Daunia.
Questo studio, che necessita di ulteriori approfondimenti, è stato condotto principalmente sulla base tipologica dei repertori noti e sull’osservazione macroscopica degli impasti. L’obiettivo primario è stato quello di individuare le macroaree di produzione e di interfacciare il dato che emerge con quello relativo alle altre produzioni ceramiche.
Si deve ipotizzare un tessuto produttivo artigianale locale, ancora lacunoso nella sua completa ricostruzione31, a cui si affiancavano apporti esterni, sintomatici di fitti ed intensi rapporti di economia circolare. Le attestazioni sono in linea con le produzioni ampiamente attestate nel resto della Puglia settentrionale.
La testimonianza più antica del nostro campione è riferibile ad una anfora greco-italica antica, databile alla fine del IV secolo a.C., verosimilmente una MGS V.
Ad un contesto subregionale sono da far risalire il nutrito numero di esemplari di anfore ovoidali, comunemente note come” brindisine”, diffuse capillarmente in età repubblicana e sintomatiche di uno sfruttamento agricolo legato a piccole unità abitative a conduzione familiare.
Relativamente all’età tardo-repubblicana e primo imperiale il comparto dell’ager Lucerinus, alla stregua del resto della Daunia, si connota per la preponderanza di contenitori vinari italici prodotti in ambito adriatico, nello specifico nord-adriatici, a cui si associano alcuni elementi importati dal Mediterraneo orientale, nella fattispecie dall’area egea32.
Numericamente poco attestate parrebbero le anfore della “romanizzazione”, le Lamboglia 2 diffuse tra la fine del II secolo a.C. e l’età augustea. Per la fase successiva (metà I s. a.C.- inizio II s. d.C.) sono presenti leDressel 6Aele Dressel 2-4, quest’ultime dagli indici numerici consistenti, sempre di manifattura adriatica.
Ai primi secoli dell’impero possiamo associare rapporti, seppur sporadici, con l’area iberica per la presenza di Haltern 70e a seguire Dressel 14.
A partire dall’età augustea giungono dalle provincie diversi prodotti anforacei: a questo arco cronologico risale un frammento di tardo-rodia, la Camulodunum 184.
In età tardoantica l’intero territorio si riorganizza creando opere infrastrutturali importanti sia dal punto di vista viario (si pensi alla massiccia strutturazione di tutte le attività connesse alla transumanza), sia relativamente al riassetto del sistema idrico, alla regolamentazione dello sfruttamento di risorse naturali ma soprattutto alla riqualificazione residenziale con l‘occupazione di nuove aree rurali legate allo sfruttamento agricolo.
Le produzioni italiche sono scarsamente presenti, soppiantate quasi completamente da prodotti africani in associazione a ceramiche da mensa e da illuminazione.
Quantitativi considerevoli risultano essere contenitori nord africani, appartenenti a più centri di produzione e con cronologia abbastanza ampia compresa tra il III e V secolo d.C., adibiti al trasporto di olio e di salse di pesce, come le Africane II e III, ma soprattutto spatheia, la cui diffusione è capillare in tutto il bacino del Mediterraneo nelle forme Keay XXV e soprattutto XXVI tipo 1; più tardi assistiamo alla presenza di importazioni orientali sia dall’area egea che siro-palestinese: LRA 1, 2, 3, 4, e 5/6, ma soprattutto la LRA 8, e Adamsheck R22 e Agorà M273.
Il quadro che emerge anche per questo comparto, apparentemente decentrato, è di estrema vitalità della campagna, dove le attività risultano essere ben organizzate, inserite in scambi e dinamiche ad ampio raggio dove spicca una dimensione “adriatica e mediterranea”33 proprio attraverso un sistema viario capillare e quindi perfettamente coerente con i comparti centrali del resto della Daunia34.
Ceramica di età tardoantica
La ceramica di età tardoantica analizzata in questa sede proviene da un totale di 155 punti archeologici. La classe è quella d’uso comune e si articola tipologicamente in acroma depurata, ceramica dipinta e acroma grossolana, distinte prevalentemente in base a criteri tecnologici. Sono stati analizzati complessivamente 2899 frammenti ceramici di cui 1757 forme minime utili alla creazione di una cronotipologia (fig. 5). La classe maggiormente attestata è la ceramica comune dipinta, presente con un totale di 696 forme minime. Gli impasti ben depurati e di colore tendenzialmente rosaceo caratterizzano prevalentemente le forme da mensa e dispensa, mentre pentole e tegami sono realizzati con impasti di colore scuro in cui si nota una presenza maggiore di inclusi. Il corredo è articolato in diverse forme, con numerosi tipi e sottotipi e in cui il numero di quelle aperte supera di poco quelle chiuse. La forma maggiormente attestata è il bacino (29,02 %), seguita dal tegame (22,27%) e dalla brocca (14,51%). Le decorazioni sono ottenute tramite l’incisione, l’applicazione del rivestimento o l’insieme di entrambe le tecniche. In genere si tratta di linee parallele e sinusoidali, spirali, tratti giustapposti o pastiglie applicate che, nel caso delle forme chiuse, occupano l’orlo, la spalla/pancia e l’ansa del manufatto, mentre in quelle aperte ricoprono il bordo e la parete interna. L’ingobbio, di colore rosso o rosso-arancione, è steso con ampie o strette pennellate, per immersione o spugnatura. Nella pentola e nel tegame, le pareti e l’orlo sono caratterizzate dalla politura a panno o a stecca. Nel complesso la produzione appare di buon livello, con prodotti rifiniti e accurati e caratterizzati da una discreta qualità esecutiva. L’alta varietà tipologica induce a pensare che essa avvenga localmente secondo processi semi-specializzati e sia destinata al fabbisogno di piccoli comparti territoriali. Le officine che producono i manufatti dipinti si dedicano anche alla realizzazione di prodotti acromi, come proverebbe l’uso condiviso di alcuni tipi di impasti. La classe dell’acroma depurata è attestata con un totale di 416 forme minime in cui, anche in questo caso, forme aperte e forme chiuse pressoché si equivalgono. La forma maggiormente attestata è il bacino (30,52%), con buone percentuali delle forme olla (22,11%) e ciotola (20,91 %). I motivi decorativi sono rari e, quando presenti, sono ottenuti tramite l’incisione di linee parallele o sinusoidali. Si tratta nella maggior parte dei casi di manufatti di discreta qualità esecutiva, nonostante sia frequente l’anima grigia. Infine, per quanto riguarda l’acroma grossolana, è la seconda classe maggiormente attestata, con un totale di 670 forme minime, in cui quelle chiuse superano nettamente quelle aperte. Gli impasti, in genere di colore marrone-grigio o rosso-arancione, presentano un’alta presenza di inclusi consistenti principalmente in miche, calcite e quarzo. Il corredo si articola in quattro forme principali con un’alta attestazione di olle (46,71%). Pentole e tegami, come nel caso della ceramica dipinta, possono presentare pareti steccate o lisciate a panno. Inoltre, anche in questa classe è possibile ipotizzare una produzione locale con manufatti di buon livello, tutti eseguiti a tornio veloce.
Nel complesso la produzione locale di ceramica tardoantica d’uso comune rispecchia la vivacità culturale del comprensorio preso in esame in cui, parallelamente alla flessione del sistema di scambi su scala mediterranea, si registra la massiccia presenza di manufatti che integrano o si sostituiscono alle importazioni dei prodotti africani e orientali. Il fenomeno dell’imitazione è ben visibile, a livello morfologico ed estetico, prevalentemente nelle forme della ciotola, del tegame e della pentola. È una produzione, quindi, che, riprendendo le caratteristiche formali e morfologiche dei prodotti della tradizione romana, prosegue con impulsi autonomi soprattutto a partire dal V secolo d.C., quando vengono introdotte nuove forme (es. bacino, brocca/anforetta) e altre vengono usate meno (es. tegame), probabilmente in seguito a cambiamenti nello stile di vita e nella dieta35. Tutto questo si traduce nell’intensificarsi delle reti di scambio regionali o interregionali basate sui mercati urbani o sulle nundinae, che portano alla condivisione di informazioni stilistiche, formali e tecnologiche in ampi comparti territoriali. Ed infatti i confronti tipologici con i siti noti mostrano strette analogie con i materiali provenienti in primo luogo da Ordona36, Faragola37 e San Giusto38, in provincia di Foggia, e, in misura minore, con i siti di Agnuli (Mattinata-FG)39, Monte San Giovanni (Carlantino-FG)40, Carminiello ai Mannesi (NA)41, San Gilio di Oppido Lucano (PZ)42, Calle di Tricarico (MT)43, San Giacomo degli Schiavoni (CB)44, Nocciano (PE), Pescara (Bagno Borbonico), Castrum Truentinum (TE), Crecchio (CH) e San Vito Chietino (CH)45, denunciando pertanto una comunanza di forme, decori e trattamento delle superfici che inquadrano la produzione ceramica in un’area culturale comprendente la Puglia, la Basilicata, la Campania, il Molise e l’Abruzzo.
Centri di produzione
Ad un certo punto dell’attività di indagine archeologica si è reso necessario soffermarsi su alcuni aspetti legati alle lavorazioni ed ai cicli produttivi dei manufatti.
A livello metodologico46 si è partiti dalla selezione analitica di tutti gli indicatori di attività artigianali rinvenuti sul campo, integrati successivamente con il censimento di tutte le strutture fisse per la produzione di materiale ceramico e laterizio noti in letteratura47 compresi in un arco cronologico abbastanza ampio che si estende dal III secolo a.C. al V secolo d. C., con una particolare predilezione per il periodo della romanizzazione..
La distribuzione di tali manufatti (fig. 6) o di tracce legate a questo tipo di attività, come semilavorati, attrezzi, scarti di produzione, è stata il punto di partenza per tentare la comprensione di alcuni dei caratteri delle produzioni.
Rispetto all’intensa produzione fittile lucerina, testimoniata da opere di alto pregio, per esempio la superba coroplastica proveniente dalle stipi, le attestazioni risultano ancora lacunose48. Solo per un numero esiguo di testimonianze abbiamo dati puntuali derivanti da indagini sistematiche: un recente scavo da parte della Soprintendenza presso Masseria Selvaggi (Lucera)49 ha consentito il rinvenimento di un forno pertinente verosimilmente alla realizzazione di mattoni, un’istallazione in buono stato di conservazione è stata rinvenuta ad Arpi in loc. San Nicola50 e una più a Sud presso Faeto, loc. Frassinelle51. A queste evidenze si devono aggiungere due esemplari indagati diversi anni fa nel comprensorio di Carlantino52, nella media Valle del Fortore. Dal medesimo distretto giungono altre testimonianze, due riconducibili a strutture fisse, una sita in loc. Valle dei Cerri, all’altezza dello sbarramento dalle acque dell’invaso, e una seconda non molto distante presso Casale de Maria pertinente ad una fattoria di medie dimensioni, con cronologia II secolo a. C.-II secolo d.C.
Sempre dal territorio comunale di Carlantino, loc. Masseria Le Monache, provengono i ritrovamenti di diverse matrici di lucerna pressoché integre53. Durante l’ultima campagna di ricognizione (2019) l’area che lambisce il margine Nord-Ovest del territorio comunale di Celenza Valfortore, gravitante sempre intorno alla diga di Occhito, ha restituito diverse strutture riferibili ad installazioni fisse connesse al ciclo produttivo dell’argilla. L’attività di ricognizione ha contribuito a fare chiarezza sulla distribuzione spaziale degli impianti che insistono in questa porzione della media Valle del Fortore54. I dati preliminari suggeriscono che si possa trattare di una sorta di distretto artigianale connesso tra il III e il II secolo a.C. a grandi ville rustiche, a vocazione agricola. In seguito, a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., la dimensione familiare è soppiantata da produzioni destinate al commercio, come parrebbe suggerire il sito di Masseria delle Monache, dove è presente una apprezzabile variante tipologica di matrici di lucerne.
Relativamente alle strutture analizzate, riferite al periodo della romanizzazione, emerge la predominanza delle installazioni fisse, riconducibili a fornaci verticali con poche varianti tipologiche55.
Tra gli aspetti che emergono sicuramente c’è la componente ambientale: la quasi totalità delle aree si connotano dal punto di vista geologico come fortemente argillose; inoltre, l’approvvigionamento idrico è abbondante così come garantite sono le risorse arboree. L’altra costante è l’ubicazione nei pressi di arterie viarie e snodi importanti, esistenti e percorsi da sempre, tanto da indurre ad ipotizzare un “sistema Fortore”, dove il fiume costituisce l’elemento di raccordo fondamentale.
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Notes
- Responsabile del coordinamento delle attività di survey e del Laboratorio GIS è Giovanni Forte.
- Marchi & Muntoni 2018; Marchi et al. 2019, 397-398.
- Le ricerche sono condotte con finanziamenti annuali dei vari comuni.
- Per una sintesi sul metodo cfr. Marchi 2010; Ead. 2015.
- Anche in assenza di specificazione, i numeri si riferiscono al repertorio Morel 1994. A titolo esemplificativo, per l’inquadramento della classe si rimanda anche a Cibecchini & Principal 2004; Di Giuseppe 2012; Brecciaroli Taborelli 2005; Ead. 2019. Per i problemi di calibrazione della datazione si vedano Pelgrom et al. 2014; Lecce2019. Per il comparto lucano, si veda Di Giuseppe 2019 con bibliografia.
- Marchi et al. 2015, 333 e 335.
- Per gli esiti di un imperfetto processo di sinterizzazione e delle differenze di coefficiente di dilazione tra rivestimento e corpo ceramico si veda Cuomo di Caprio 2007, 91, 321, 323, 314-317, 374-375.
- L’area produttiva di elezione della serie è quella etrusco-laziale; per l’individuazione di centri produttivi esterni a quest’area si veda Nicoletta 2011, 89 con bibliografia.
- Marchi 1991, 113.
- Cuomo di Caprio 1971-1972, 454-455; Picon 1988, 224; De Benedittis 1990; Morizio 1990, 305; Volpe 1990, 76-77; Marchi 1991, 113-114; Ead. 2002, 393; Ead. 2010; Pietropaolo 1995, 268; Ead. 1999, 233; Curci 2000; Deru & Paicheler 2000, 440-441, 446-447; Giuliani 2002, 171; De Stefano 2006, 400-401, 406-407 con bibliografia; Ead. 2008, 51; Corrente et al. 2008, 354; Olcese, ed. 2011-2012, 264-265, 268 con bibliografia; Corrente, Battiante e Roccia 2014, 314, 318-319; Di Giuseppe 2012, 58, 104 con bibliografia; Pacilio & Montanaro 2013, 170; Zentilini 2017, 126-160 con bibliografia.
- L’espressione “terra sigillata” fu coniata alla fine del ‘700 e fu definitivamente proposta da H. Dragendorff nel famoso articolo del 1895. Cfr. Dragendorff & Watzinger, ed. 1948. Solo a titolo esemplificativo si segnalano gli studi più importanti in Malfitana et al., ed. 2006.
- Mertens 1972, 221.
- Stenico 1971, 143-155.
- AE 1996, 452; si veda Silvestrini 1996, 441-443., n. 2.
- Si tratta di un contesto di età romana imperiale rinvenuto nell’ambito di scavi di archeologia preventiva per la realizzazione di un’area da adibire a mercato in loc. Pezza del Lago. Si ringrazia il dott. I. Muntoni per la disponibilità alla consultazione ed allo studio dei dati di scavo, emersi durante le indagini di archeologia preventiva seguite dal dott. G. Forte per conto di Dauniarchè.
- Il graffito può avere più interpretazioni in quanto interrotto dalla frattura: nome del proprietario al nominativo, ad esempio Vettius, attestato a Lucera, Venosa, Canosa, oppure vetus, ad indicare che il vaso non era più in uso. Si veda Vavassori 2012, 81-99.
- Questa forma è ben rappresentata anche in contesti più vicini, come Herdonia (in percentuali minori e in contesti di scavo: cfr. Rizzitelli 2000, 272; Annese 2000, 288) e la villa di Agnuli presso Mattinata (Volpe et al. 1998; D’Aloia 1999).
- Questa produzione è documentata anche ad Herdonia con pochi esemplari (cfr. Rizzitelli 2000, 272).
- Rimane ancora aperta la questione della datazione della variante B, spostata da M. Bonifay alla metà e poi alla fine del v secolo d.C. (Bonifay 2004, 167-171).
- Volpe et al. 2007, 364-365. Sulle imitazioni della sigillata africana si veda Fontana 1998.
- Per Herdonia si veda Rizzitelli 2000, 272; per San Giusto Volpe et al. 2007, 355. Si veda anche Annese 2006, 475.
- Hayes 1972.
- Rizzitelli 2000, 272-273; Leone 2000, 394.
- De Venuto et al. 2015, 113-114.
- Sulla presenza e circolazione delle ceramiche fini da mensa nella Puglia settentrionale si veda in particolare Leone & Turchiano 2002; Annese 2006.
- Martin 1998.
- Si pensi ai risultati delle indagini condotte nella villa di Agnuli a Mattinata, dove la sigillata focese è presente in una percentuale maggioritaria, addirittura del 57,86 % (cfr. Volpe et al. 1998).
- Tra gli ultimi contributi sull’argomento si segnala Di Mitri 2012 e Id. 2013 relativamente alla Puglia meridionale.
- Un confronto significativo è quello con San Giusto, dove questo prodotto è attestato da pochissimi frammenti (Biffino et al. 1998, 264-265). Si veda anche Annese 2006; Volpe et al. 2007, 355; Volpe et al. 2010, 644-645.
- Sui flussi e le rotte commerciali tra Oriente e Occidente si veda Reynolds 1995, 132-135.
- Dovevano esistere aree artigianali dedicate alla produzione di contenitori adibiti al trasporto, soprattutto intorno a realtà portuali importanti come Siponto e Salapia. Presso Volturino, località Parco Vecchio, è stata indagata una fornace a pianta rettangolare annessa ad un ambiente artigianale con cronologia probabile tra I secolo a.C. e III secolo d.C., per la quale si ipotizza da parte degli scavatori una produzione ad uso domestico di contenitori per il trasporto di olio. Corrente et al. 2014, 390.
- In particolare un esemplare di anfora vinaria rodia, ampiamente documentata in Daunia. Sulla circolazione e sui significati da attribuire a questo tipo di anfora, che spesso in territorio daunio si trova in contesti tombali, in associazione con anfora olearia brindisina si veda Volpe 1980-1987, 105-120; Id. 1985, 231-240.
- Volpe et al. 2007, 353.
- Leone & Turchiano 2002, 871-876.
- Volpe et al. 2010, 643-656 e bibliografia precedente.
- Annese 2000, 285-342; Leone 2000, 387-436; Turchiano 2000, 285-342.
- Cristino 2011-2012; Scrima 2008-2009.
- Biffino et al. 1998, 263-276; Cristino 2011-2012.
- Volpe et al. 1998, 723-734.
- Gravina 2004, 3-32.
- Arthur 1994.
- Di Giuseppe 2008, 305-354.
- Di Giuseppe & Capelli 1998, 735-752.
- Albarella et al. 1993, 157-230.
- Staffa 1998, 437-480.
- Lo studio è ancora in una fase embrionale, pertanto non aderisce alle linee guida proposte ed adottate per il Progetto CRAFTS, ambizioso lavoro diretto da M. Polter e da S. Santoro, finanziato dalle Università di Bologna, Milano, Parma e Pavia.
- La situazione attuale degli studi è molto disomogenea, i comparti che caratterizzano tutta la Daunia sono stati indagati con parametri e metodologie differenti determinate da contingenze diverse, pertanto sia quantitativamente che qualitativamente i dati non sono uniformi.
- Molte informazioni derivano da indagini datate, dove la documentazione risulta scarna. Si menziona il rinvenimento di una fornace presso via Bonghi, Lucera (Archivio SABAP FG, Busta 61, Fascicolo 1482) e nei pressi dell’anfiteatro (Pietropaolo 2006-2007, 116). Informazioni relative ad un probabile opificio di lucerne del I secolo d.C. si trovano in Malerba 2001, 185; Volpe 1982-1983, 50. Una ricostruzione puntuale, soprattutto per la fase tardoantica, si trova in Turchiano 2002-2003.
- Tipologicamente rientrante nel Tipo IIc. Mazzei & La Riccia 2002-2003, 44-46. Segbers & Muntoni 2017, 11-14.
- Lo scavo è ancora in atto, sotto la competenza personale di Italo Maria Muntoni, Soprintendenza Foggia; la cronologia è relativa al V-IV secolo a.C.
- Andreassi 2008, 751.
- L’intervento relativo allo scavo d’emergenza realizzato in seguito all’abbassamento stagionale delle acque dell’invaso artificiale di Occhito ha riguardato due diverse aree di una villa rustica. Furono rinvenute due fornaci, rientranti, anche se con delle varianti, nel Tipo II/b. La fornace 1 presenta una pianta a ferro di cavallo, il praefurnium non si è conservato, e verosimilmente doveva essere ad una sola camera; l’altra struttura, fornace 2, a pianta quadrangolare con stretta imboccatura rettangolare, recava all’interno ancora parte del carico (tubi fittili, pesi da telaio e un elemento architettonico a protome leonina) e infine una moneta, un asse a doppia prua con cronologia di III secolo a.C. che ne suggellerebbe la datazione post quem. Difficile stabile con precisione il ciclo produttivo di riferimento, tuttavia è ipotizzabile che non era destinato esclusivamente al fabbisogno della comunità che produceva. Mazzei 1997, 28-30, Tav. V, Segbers & Muntoni 2017, 5-11.
- L’area ha restituito diverse lucerne a vernice nera pertinenti al tipo “apulo” databili tra la fine del IV e il III secolo a.C. e quattro matrici bivalve, più tarde, custodite nel Museo di Carlantino. Inoltre al di sotto del piano di campagna sono visibili innumerevoli strati livellati in cocciopesto e l’accenno della bocca d’ingresso di quello che parrebbe essere un forno.
- La concentrazione di officine, o quanto meno di installazioni fisse, non è un fenomeno che interessa solo la sponda sinistra del Fortore, quindi la parte pugliese, ma si registra anche sulla riva opposta, in territorio molisano: a Sant’Elia a Pianisi, in loc. Campo del Forno, furono rinvenute ed indagate due fornaci così come a Macchia Valfortore, tutte cronologicamente riferibili alla fase romana.
- Per la classificazione tipologica si è adoperata la terminologia elaborata dalla Cuomo di Caprio; confermata una sostanziale preferenza in questo comparto per il tipo II.