Le ricerche di archeologia dei paesaggi rurali e urbani condotte nell’ultimo trentennio nel comparto della Puglia, coincidente pressappoco con l’antico distretto della Apulia et Calabria, consentono di descriverne il disegno e iniziare a ricostruirne l’articolato quadro storico-insediativo e socio-economico1. A fronte dei numerosi studi e contributi sul contesto politico-istituzionale, sulle dinamiche di urbanizzazione e di gestione del territorio e delle risorse naturali, sulle forme di circolazione di derrate e merci2, si deve tuttavia registrare l’assenza di un’indagine complessiva e mirata pertinente l’artigianato fittile nell’area della secunda tra le regiones determinate dalla discriptio augustea (Plin., HN, 3.46.1-8), e dunque relativa ai connessi processi che appaiono sottesi a fabbricazione, commercio, consumo, smaltimento, e che sembrano risolutivi rispetto al quadro topografico, allo schema poleografico e all’assetto demico, agli stili di vita e agli usi alimentari delle società antiche di riferimento3.
La ricerca, avviata entro una più vasta indagine sulle modalità insediative e le forme di gestione della filiera fittile nella Puglia centrale di età romana4, è stata ridefinita ed estesa all’intero comparto regionale5 e vuole così provare a verificare la liceità applicativa di una sorta di prospettiva ribaltata, di una eterogenesi critica, che inverte il percorso diagnostico consueto e pone all’inizio e alla base della ricerca il polo ‘originario’ della manifattura locale piuttosto che l’esito ‘originale’ del manufatto, nella consapevolezza di agire e di riflettere all’interno di un approccio, anche archeometrico, che in entrambi i casi è comunque di tipo convenzionale6.
Dunque, qui si presentano i presupposti prodromici – ancor prima, e più, che i risultati preliminari – di questo percorso che sortisce l’obiettivo di censire, schedare e relazionare, sul più ampio tessuto cartografico-informativo esteso all’intero datum insediativo disponibile per il comparto considerato, i contesti deputati alla produzione della ceramica e dei laterizi documentati nel territorio pugliese tra la fine del IV-inizi del III secolo a.C. e la fine del III-inizi del IV secolo d.C. (fig. 1), ovvero entro il lungo arco cronologico compreso tra il progressivo sfaldamento degli ethne indigeni, la graduale romanizzazione della compagine corodemografica di Ἰάπυγες καὶ Μεσσάπιοι (ricordati da Plb. 2.24.11 per la formula togatorum del 225 a.C.), la riorganizzazione di età imperiale e la provincializzazione della regione7.
L’individuazione, la raccolta, il censimento e il catalogo tipo-cronologico sono stati organizzati tenendo conto di studi basilari specifici, quali quelli dedicati alla tassonomia delle fornaci, elaborata da N. Cuomo di Caprio, e alla produzione ceramica, analizzata secondo l’approccio olistico, anche di sapore etnoarcheologico, già tracciato da D.P.S. Peacock ed E. Giannichedda8, e sono stati pure calibrati guardando gli esiti di progetti di ricerca di sviluppo europeo (ad esempio, ‘P.A.A.R./CRAFTS’, ‘Volcanus’, ‘Immensa Aequora’, ‘Roman Sicily Project’, ‘Roman Ports Network’9) che, attraverso l’analisi globale della manifattura di età romana, hanno focalizzato l’attenzione non solo sulla logica generale dei cicli di produzione, circolazione e uso/consumo di risorse (biologiche e minerali), ma anche sulle relative pratiche e dinamiche artigianali e sulle consuetudini giuridiche, valorizzandone la reciprocità funzionale, strumentale e sociale e tentando di sciogliere l’anacronistica dualità tra ‘Konsumstadt’ e ‘producer city’ nell’ottica semmai di una maggiore integrazione del rapporto plurale città / campagne10. È stato dunque ben considerato – e adeguato ai limiti del campione affrontato – il prisma interpretativo che nel paniere diagnostico ricomprende l’apporto dell’archeologia e in maniera convincente ricuce la cesura tradizionale (ancorata a rappresentazioni sociali più che a comportamenti effettivi) tra agricoltura da un lato e altre attività crematistiche dall’altro, emancipa dalle res rusticae in senso stretto, ‘varroniano’, i successi della manifattura tecnica (a lungo ed erroneamente ritenuta pressoché dipendente dalle res secundae della cura fundorum) e semmai rivela dell’artigianato quel profilo strumentale, “profiteur”, “opportuniste”, quale “fidèle compagnon” sia “de l’agriculture développée” sia delle attività agrosilvopastorali sia dello sfruttamento intensivo di cave e miniere cui esso attingeva – soprattutto in alcune aree della penisola – la maggior parte delle materie prime adoperate. In tal modo, pur nella specifica diversità dei contesti studiati, già dall’età medio-tardorepubblicana in area italica affiora la prospettiva in cui il forte e centripeto rifornimento dei mercati cittadini (e dell’Urbe) finiva per incrinare l’antico equilibrio tra ambiti agricoli e spazi aperti necessari alla vita delle comunità locali e lasciava emergere il quadro di un artigianato che nei recessi rurali era di solito modesto e poco espansivo, mentre risultava solido e importante proprio nei quadranti cittadini e nei grandi poli demici su cui gravitavano le attività agricole a più alto reddito11.
Si considerano quali indicatori utili sia installazioni fisse (fornaci, vasche per la manipolazione e i processi di raffinamento della materia prima, vani per la lavorazione e lo stoccaggio, pozzi e cisterne per l’approvvigionamento idrico) sia reperti mobili (residui, scarti, attrezzi, utensili)12.
Si sta lavorando sull’edito, finora acquisito grosso modo fino al 2010. E si scontano anche per questo la disparità di consistenza euristica e di approccio interpretativo nonché la diversa densità documentale riscontrate per i vari comparti regionali valutati, per i quali spicca la ricerca svolta nel settore settentrionale, affidata a una più lunga, ricca e costantemente rinnovata tradizione di indagini sul campo e di valutazioni interpretative che, proprio per l’età romana13, segnano la sensibile distanza rispetto alla cornice tracciata per le fasce pugliesi centrale e meridionale, solo di recente guadagnate a una più attenta analisi storico-archeologica connessa al periodo e al tema esaminati; come la frammentazione, anche editoriale, ha generato vuoti di conoscenza (accentuata per tutta la Puglia dall’estinzione del benemerito Notiziario delle Attività di Tutela, per lunghi anni affidato dagli Uffici periferici del MiBACT al periodico Taras, prima, e ad un bollettino autonomo, dopo), così la lenta o incompleta pubblicazione scientifica di alcuni grandi complessi della regione e il mancato ritorno critico su contesti noti hanno finito per generare una visione parcellizzata e provvisoria: una situazione deficitaria che recenti intraprese scientifiche stanno però provando a risarcire14. Fa ben sperare che, non molto tempo addietro, congiuntura analoga veniva lamentata per la provincia Sicilia, dove invece, anche grazie all’azione sinergica condivisa da un decennio tra Enti di ricerca e di tutela, il “quadro, piuttosto misero […] sembra oggi notevolmente arricchito […], al fine di ricostruire non solo lo sviluppo della cultura materiale della nostra isola, ma anche quello degli insediamenti antichi, dei processi di produzione, del contesto sociale in cui artigiani e consumatori si trovarono a interagire e, ancora, sulla sua evoluzione nel lungo arco di tempo intercorso tra il III sec. a.C. e il VII sec. d.C.”15.
Conviene indicare un’ulteriore considerazione di ordine generale, che concorre a meglio illustrare l’ordito che intreccia la filiera fittile con la trama del sistema economico ricostruibile, più ampiamente, per l’intero tessuto rurale e urbano. Se per questi ultimi, infatti, la documentazione permette di intravvedere ora un sistema di produzione ‘selettivo’, emancipato da altri impegni artigianali, discorso a parte meritano gli impianti rurali. Qui il percorso artigianale è spesso associato ad altre attività connesse per lo più alla gestione e allo sfruttamento della terra, sicché la realizzazione dei manufatti ceramici risulta complementare rispetto alla produzione, trasformazione, conservazione ed eventualmente commercializzazione dei prodotti agricoli. Tale è l’apparato economico individuabile sia nei siti di piccole e medie dimensioni (orientati all’autoconsumo e/o ai mercati su piccolo e medio raggio) sia nei grandi fundi, come quello ricostruito per l’età tardorepubblicana nel Brundisinus ager, le cui produzioni – come infra chiarito – dovevano essere destinate per lo più alla commercializzazione. È chiaro che, in una diatesi cronologica vasta e quindi foriera di scenari cangianti, entrano in gioco non solo il tipo di manifatture prodotte, l’ubicazione degli impianti e il rapporto fra città e campagne, ma anche il grado di ‘specializzazione’ delle singole officine, evidentemente variabile in rapporto anche agli indicatori sopra menzionati. Questo dato va letto nel più comprensivo quadro restituito per i paesaggi apulo-calabri: ad esempio, e in particolare, nel comparto centrale l’analisi recente della documentazione archeologica e il riesame delle rade fonti letterarie permettono di accertare un’economia poliforme basata sul binomio agricoltura-allevamento e su attività secondarie e complementari di ambito rurale come la lavorazione della lana e dell’argilla nonché l’uso razionale dell’incolto produttivo16.
Oltre alla maggiore o minore ‘specializzazione’ degli impianti, va sicuramente valutata, ai fini di una comprensione globale dello status di funzionamento degli ateliers, anche l’ubicazione di questi ultimi rispetto alle caratteristiche geologiche e pedologiche dei comparti in esame (fig. 2). Nella maggior parte dei casi, infatti, gli impianti si impostano in aree caratterizzate da depositi argillosi e argillo-sabbiosi (soprattutto nella porzione settentrionale della Puglia) e da terre rosse e da Argille Subappennine su rocce calcaree (soprattutto nella parte centrale e meridionale della regione), che rappresentavano una sicura fonte di approvvigionamento della materia prima e che rendevano pertanto le manifatture economicamente vantaggiose e profittevoli17. Inoltre la possibilità di rifornimento di legname (di tipo ‘duro’, cioè dal peso di circa 400 kg/m3, riferibile segnatamente alla famiglia delle querce e di alcune latifoglie, olmo, leccio, faggio, frassino, ma anche all’olivo), usato come combustibile e indispensabile al funzionamento delle fornaci, era garantito dalla presenza sufficientemente diffusa di boschi e macchie, indiziata – con buona verosimiglianza – da notazioni archivistiche e cartografiche medievali e moderne e confortata talora da ricognizioni topografiche e analisi bioarcheologiche pertinenti lo studio di toponimi. Neanche si può escludere l’uso di strame (soprattutto nelle piccole botteghe associate a un impegno agrosilvopastorale volto all’autoconsumo) o di sansa esausta, comburente dall’alto potere calorifico ed esito residuale della lavorazione elaicola, dunque ben disponibile in una regione massicciamente vocata all’arboricoltura olivicola soprattutto dall’età tardorepubblicana18. Accanto alle aree boscate e a macchia mediterranea – in un comprensorio povero di acque superficiali, ma segnato da ricca idrografia ipogea – ben documentate sembrano pure le zone umide, caratterizzate da piccoli laghi o specchi d’acqua ferma, di formazione anche occasionale, che potevano garantire il rifornimento idrico. A tali habitat sembrano rimandare idronimi e fitonimi come ‘lago’, ‘padula’, ‘palude’, ‘pantano’, ‘pantanella, -o, -i’, ‘canne’, ‘cannucce’, ‘cannito’ nonché ‘lumo’ – quest’ultimo ascendente al greco λίμνη, quindi al latino limus –, ben documentati nel nostro comparto, e con buona frequenza soprattutto verso Sud-Est19 (fig. 3). Si ricava l’impressione che il raffronto nel lungo periodo tra tradizioni ‘indigene’ e forme ‘romane’ si esplichi su aree ad influenza e interazione differite secondo una gestione strumentale ed efficace del paesaggio, coerente con una visione utilitaristica ‘a geometria variabile’ che indulge a fenomeni di ‘apoptosi’ insediativa, cioè prevede situazioni che elidono e ripensano man mano siti, operazioni e funzioni nel perseguire il mero obiettivo dell’opportunità profittevole.
Dunque, la raccolta dei dati (fig. 1) ha consentito di individuare 36 contesti attivi tra il tardo IV e l’avanzato II secolo a.C., 44 tra II e I secolo a.C. (dei quali 18 ancora funzionanti nella prima età imperiale), 18 databili tra I e III-inizi IV secolo d.C. (con un solo impianto utilizzato – pare – fino al VI secolo d.C.) e 16 ambiti per i quali la documentazione disponibile impedisce ipotesi di datazione, ancorché essi siano ascrivibili genericamente a età romana. I limiti imposti a questo contributo peraltro ostacolano la rappresentazione, pur soltanto elencatoria, sia delle produzioni attestate (ceramica pesante, quindi laterizi, instrumentum domesticum, a comprendere anfore e lucerne) sia delle fonti bibliografiche e storiografiche che sottendono l’individuazione delle evidenze vagliate e per le quali si rinvia all’edizione di un più ampio e dettagliato dossier in preparazione.
Si tralascia il disegno ricostruibile per il periodo della incipiente romanizzazione che necessita di ulteriori verifiche e di attenti approfondimenti in relazione ai processi di continuità/discontinuità rispetto a dinamiche culturali, insediative, produttive ed economiche non sempre riconducibili a un’unica matrice (ideo)logica e morfogenetica applicabile al vasto e multiforme ambito regionale20. Per questo torno di tempo le linee di tendenza rilevate fanno intuire – entro uno schema parziale, ma utile anche a illuminare, in controluce, evenienze topiche dei periodi successivi esaminati – che predominano i siti urbani (su 36 indicatori ben 23 riguardano 14 città); le evidenze si distribuiscono con equilibrio da Nord a Sud; prevalgono modi afferenti alla ‘officina singola’, strategicamente versata su produzioni anche diverse e complementari; l’accelerazione della spinta all’urbanizzazione pure distingue qualche ‘agglomerato di officine’ (Canosa, Gnatia, Taranto, Basta); tutte le installazioni prevedono prossimità a fonti di approvvigionamento di acqua e legna, vicinanza a percorsi viari e/o a terminali di pileggi nonché attitudine distributiva delle merci su raggio almeno corto-medio, obbedendo quindi a caratteristiche conservatesi a lungo nel tempo21.
Pertanto, si intende concentrare l’attenzione sull’arco cronologico che corre tra la fase della municipalizzazione, indotta anche dal bellum sociale, e la fine del III-inizi del IV secolo d.C.22.
La documentazione censita registra per l’età tardorepubblicana 21 contesti noti da installazioni fisse, 12 contesti riconoscibili sulla base di reperti mobili e 11 individuati grazie al rinvenimento come di installazioni fisse così di reperti mobili (fig. 4).
La maggiore concentrazione si riscontra nella Apulia settentrionale (12 contesti) e nella Calabria ‘sallentina’ (12 contesti), mentre per la parte centrale della regione – in parte coincidente con l’antica Peucezia e con la chora tarantina nord-occidentale23 – è stato possibile individuare 5 evidenze. In tale agro mediano emerge peraltro il dato riscontrato per le due fondazioni coloniali: quella maritima di Colonia Neptunia, sullo Jonio, che dal 123 a.C. convisse con Taras prima della sua contributio al municipium tarentino nel frattempo subentrato alla polis laconica foederata, all’epoca urbs ancora opulenta et nobilis secondo Livio (24.13.5)24, e quella di diritto latino di Brundisium, sull’Adriatico, dedotta nel 241 a.C., all’approssimarsi della guerra annibalica25, che a lungo garantirono e sostennero un ‘duopolio istmico’ strutturale e complementare nell’economia regionale26, sicché per questo periodo la documentazione archeologica consente di riconoscere rispettivamente 6 e 9 impianti27.
La morfo-tettonica degli ateliers attivi in età tardorepubblicana lascia intravvedere un quadro complesso e articolato (fig. 5), se raffrontato con quello ricostruibile per l’arco cronologico risalente alle fasi incipienti di ingerenza delle genti iapygie entro la confederazione romana (fine IV-inizi II secolo a.C.)28. Alla manifesta prevalenza di forni a pianta circolare, attestata nell’età della romanizzazione in tutta la regione, fa riscontro la realizzazione di fornaci a pianta rettangolare, assimilabili alla tassonomia ‘Cuomo di Caprio’ II29. L’impiego di tali strutture non sembra tuttavia esclusivo: insieme ai 14 forni a pianta rettangolare, risultano attive 15 fornaci a pianta circolare, spesso anche di più antica impostazione, che sovente ‘convivono spazialmente’ con le strutture più recenti, come si rileva ad Altamura-Casal Sabini, Brindisi-Giancola/Marmorelle, Alezio-Raggi30 (fig. 6). Neanche l’analisi contestuale e l’esame delle produzioni, cui i singoli impianti erano deputati, consentono di avanzare ipotesi circa l’esigenza che motiva la scelta della forma strutturale: entrambe le soluzioni piro-tettoniche, infatti, sembrano adottate sia per la manifattura di laterizi, di tegole o di pesi da telaio sia per la realizzazione di ceramica e di pregio e di uso comune31.
Qualche interessante osservazione consente, invece, la disamina delle manifatture in relazione agli spazi di installazione. La documentazione censita registra per i contesti rurali la netta prevalenza di produzioni fittili per l’edilizia — laterizi, tegole, coppi, embrici — mentre nei centri urbani (adusi a una lunga storia insediativa e a una consolidata tradizione artigianale, sin da età storica sostenute e mutuate anche dalla finitima grecità coloniale32) sono attestate officinae figulinae pure di buon profilo artigianale (per la vernice nera, la pasta grigia, le pareti sottili nonché per le lucerne e l’articolato vasellame fine assimilabile alla terra sigillata italica) che dunque necessitavano dell’impiego di considerevoli risorse economiche e di manodopera dotata di notevoli capacità operazionali di base e di sapienza tecnica maturata entro una collaudata consuetudine33.
Confermando così i dati emersi dalla collazione degli esiti occorsi per analoghe indagini (come quelle ponderate sulla Puglia centrale in età romana34), tale elemento, in via di ipotesi, permette di delineare non solo un differente sistema di gestione delle botteghe artigianaliriferibili ai contesti urbani e rurali, ma anche di rilevare diverse dinamiche di produzione e di distribuzione. È plausibile supporre che le merci esitate dagli impianti afferenti a poli demici rurali, di piccole e medie dimensioni, fossero destinate all’autoconsumo e/o alla vendita su mercati individuabili su corto raggio: questo si ravvisa – ad esempio – a Gravina in Puglia-Botromagno/Silvium, dove la cospicua quantità di ceramica realizzata localmente, la scarsa consistenza di anfore e la minima attestazione di ceramica d’importazione dai viciniori centri greci dell’arco jonico rimandano a uno schema economico di tendenziale autosufficienza, nel quale la produzione è proporzionata alle necessità e ai consumi della comunità, sebbene non si possa escludere la capacità di fornire un surplus produttivo rispetto alle esigenze del consumo in situ e comunque scevro da grandi concentrazioni35.
Quanto agli impianti di area urbana, interessanti osservazioni consente l’analisi della loro collocazione topografica rispetto al tessuto ricostruibile tra II e I secolo a.C., in particolare nei centri ben indagati di Herdonia, Canosa, Gnatia36.
A Herdonia le fornaci costituivano parte di un vero e proprio settore artigianale, ubicato a Sud-Ovest del campus–gymnasium (presso l’area poi interessata dal macellum), a ridosso della cinta muraria, dunque in posizione topograficamente defilata, ma non periferica e strumentalmente prossima alla piazza-foro, dove erano botteghe forse destinate anche alla vendita dei manufatti ivi fabbricati (fig. 7).
Appare significativa l’attestazione, ancora alla fine del I secolo a.C., della produzione di ceramica a vernice nera, a testimoniare l’attardamento di tale classe anche in Puglia: gli scarti di lavorazione rinvenuti, costituiti da piatti e realizzati in un’argilla riconosciuta come locale, possono infatti essere rapportati agli esiti tardi e periferici di questa manifattura; e a un’origine locale rimandano anche le coppe a pasta grigia ‘ordoniati’ di tipo Ricci 2/316=Marabini XXV, che perdurano fino a età giulio-claudia e sono realizzate con impasto arancione e rivestimento grigio37.
La medesima scelta insediativa, ‘ecologica, ergonomica e strategica’, è riscontrabile a Gnatia, dove gli impianti per la produzione di laterizi e di ceramica occupavano il quartiere abitativo e artigianale a Sud e a Nord-Ovest del percorso urbano della via Minucia, dunque aree non di certo monumentali o istituzionali e pure centrali della città, ubicate in settori nevralgici, interessati dalla principale arteria stradale dell’Italia sud-adriatica e non lontani sia dal grande spazio plateale trapezoidale — utilizzato come luogo deputato allo svolgimento di attività pubbliche e commerciali — sia dall’area dove recenti indagini suggeriscono di riconoscere il foro del municipium38 (fig. 8). Marcata e meglio perspicua è la destinazione funzionale degli spazi occupati dagli impianti produttivi a Canusium (fig. 9), dove nel II secolo a.C. sono ancora attivi due complessi artigianali di risalente impostazione, individuati nell’estremo settore Sud-Ovest della città, marginalmente interessata dalla successiva occupazione di età municipale e imperiale. Il primo impianto, con destinazione anche abitativa, è ubicato in vico San Martino e articolato in un complesso sistema di vasche, rivestite in cocciopesto, in connessione con pozzi e cisterne: si ritiene, credibilmente, che questo apprestamento, utilizzato per la decantazione dell’argilla, fosse parte di un più ampio insediamento artigianale unitario, come lasciano supporre la regolarizzazione e lo sfruttamento del banco naturale ai fini costruttivi e l’omogeneità del contesto, caratterizzato da piani pavimentali a tessere regolari in laterizi, individuati in numerosi settori. Al medesimo arco cronologico riportano strutture e installazioni scoperte in un’area attigua, dove un canale scavato nel banco roccioso e orientato in senso Nord-Sud, vasche rettangolari – pure ricavate nell’affiorante strato tufaceo – e un pozzo sembrano ricondurre ad attività produttive non meglio specificabili. Questo quadrante urbano pare abbia mantenuto inalterata la specifica destinazione artigianale fino a età imperiale, come lascia agevolmente supporre il rinvenimento di una fullonica, databile al I-II secolo d.C. Appena decentrata, ma non periferica, è altresì l’ubicazione anche della fornace – datata a fine II-metà I secolo a.C. e di incerta indicazione tipologica – destinata alla produzione di lucerne del tipo ‘biconico dell’Esquilino’ e forse di ceramica a vernice a nera, scoperta poco più a Nord-Est, nell’area della Scuola Elementare ‘G. Mazzini’ (fig. 10), nonché dell’impianto per la produzione di lucerne e di ceramica d’uso comune, inquadrabile entro la metà del I secolo d.C., indagata tra le vie A. De Gasperi e M. Terenzio Varrone, verso Nord-Ovest. La struttura, di forma quadrangolare, si articolava in due celle sovrapposte: la camera di combustione in basso e la camera di cottura in alto, collegate dal pavimento, sostenuto da colonnine di mattoni, e munite di pareti in mattoncini e argilla, ormai vetrificata. Nella camera superiore, in una nicchia collocata in posizione centrale si riconosce la bocca di immissione del materiale39. A Canosa dunque sembra emergere un areale produttivo che, nel suo progressivo sviluppo, si estende a raggiera, disponendosi a cornice del nucleo abitato, da Ovest/Nord-Ovest verso Sud/Sud-Est, privilegiando così l’ottica funzionale degli spazi urbani e la diversificazione delle merci realizzate nei vari forni, non già la prospettiva di ordine economico e cooperativistico, che è invece topica per gli ‘agglomerati di officine’ noti a Herdonia o, in parte, a Tarentum.
Un discorso a parte merita l’areale manifatturiero rurale di Brundisium (fig. 11) con i noti opifici per contenitori fittili da trasporto indagati nei poli di Apani/La Rosa e di Giancola/Marmorelle – con la filiale di Masseria Ramanno presso Lupiae 40 – dove è possibile osservare sia l’ampio ricorso alla manodopera schiavile, provvista di vario rango di abilità e anche di ascendenza greco-orientale (cui si riferisce l’enorme patrimonio epigrafico custodito dai bolli anforari recanti nomi di servi e di domini), sia la sequenza di due modalità produttive, legate all’ormai matura riconversione agraria indotta dagli appoderamenti decemvirali e graccani e così orientata a colture arboricole intensive per lo scambio su lunga distanza, capace dunque di assicurare col tempo risorse eccedenti l’autoconsumo e di indurre coltivazioni a resa differita, ‘incoraggiate’ peraltro dalla disciplina giuridica dei rapporti fondiari in agro coloniale che Roma pare abbia determinato in forme ‘elastiche’. La fase produttiva più risalente è a scala poderale, mentre la successiva affianca agli appezzamenti ben commessi le grandi tenute specializzate, destinate ad affermarsi tra la fine del II secolo a.C. e l’inizio del successivo, come indicato da recenti ricerche interdisciplinari41.
Così gli impianti anforari correlati di Apani/La Rosa, posti subito a Nord e a Sud di Brindisi, lungo la Minucia, e attivi già dalla metà del II secolo a.C., nella definizione spaziale sono strumentali a una pluralità di terreni e di possessori riconoscibili dai bolli impressi sulle anse dei contenitori (Aninii, Vehilii, Appulei, Lentuli nonché un esponente della familia Sullae, a conferma del coinvolgimento in loco di personaggi di primo piano della società romana), mentre le altre officinae figulinae impostate agli inizi del I secolo a.C. (o forse poco prima) a Giancola/Marmorelle, entro una fascia territoriale che incrocia la via Minucia da Nord a Sud, sarebbero riferibili a un vasto fundus – comprensivo di una fattoria e del vicus in località Masseria Pilella –, incompatibile anche con i lotti approntati dalla lex Sempronia agraria per i possessores con numerosi figli e quindi probabilmente risalente e a usurpazioni ai danni della vicina colonia latina e all’accorpamento di poderi mediante acquisto. Nel dibattito sul profilo dei personaggi che l’epigrafia anforaria riconosce, in successione, alla guida della polinucleata figlina, e assai verosimilmente anche del fundus, conviene notare la coeva ascesa della gens brindisina dei Fabii, che riveste magistrature urbane, entra nel Senato (è la prima di origine ‘pugliese’) ed è attestata da un marchio anforario di Marmorelle, sicché il nesso tra affermazione politico-sociale e concentrazione di ricchezze, indispensabili per garantire una intrapresa di tali dimensioni, disegna il riferimento a questi grandi produttori di cui i bolli tramandano il ricordo: tra cui quello di Visellio, che condusse la prima fase produttiva della tenuta fondiaria e del connesso impianto artigianale e che viene accostato alla famosa gens arpinate imparentata con Cicerone42.
In questi emblematici contesti brindisini, gli stabilimenti per la realizzazione di vasellame d’uso comune e da mensa e di anfore, non solo olearie (e a Giancola, nelle fasi successive, anche di altri manufatti quali dolia, lastre decorate, ‘damigiane’), sono riconducibili a un modello produttivo allogeno, dotato di accorgimenti tecnici che ne denunciano l’alta specializzazione, indotto plausibilmente sin dall’insediamento dei coloni latinoloquenti nella seconda metà del III secolo a.C. e poi strutturatosi secondo un progressivo, razionale sfruttamento delle risorse naturali. Inoltre, la diffusione nell’intero arco mediterraneo delle anfore ‘brindisine’ consente di ricostruire un complesso sistema economico, che vede la ‘originaria’ proprietà di Visellio al centro di intensi rapporti commerciali con mercati individuabili in primis su lungo raggio e che sancisce in maniera epidittica come le relazioni tra artigianato e agricoltura, pur evidentemente esistenti, non siano tanto topografiche quanto commerciali e funzionali43.
Tale orizzonte commerciale si sosteneva anche grazie all’ubicazione strategica degli impianti rurali, non lontani dalla città e quindi dal porto di Brundisium cui erano collegati sia dall’allora navigabile Canale Giancola sia dall’intenso tessuto stradale secondario annodato al tracciato della via Minucia, poi ripreso dalla via Traiana44. L’ipotesi può essere confermata sia dalla progressiva rarefazione – fino alla definitiva scomparsa – di siti, man mano che ci si allontana e dal Canale Giancola e dall’asse della via Minucia, sia, di contro, dall’articolazione analoga dei contesti di Ugento-Felline, di Salve-Masseria Fano e di San Cataldo-Masseria Ramanno, dove l’approdo marittimo e l’area ad esso rapportata consentivano la commercializzazione delle anfore ‘ovoidali adriatiche’, ivi prodotte, presso mercati posti lungo le rotte adriatico-joniche45.
In sintesi, per l’età tardorepubblicana e fino al pieno sviluppo del principato, aumentano gli indicatori e gli areali di lavorazione dell’argilla, ma se ne contrae la diffusione sul territorio secondo solidi nodi che concentrano e diversificano le produzioni (fig. 12). La città imbastisce coesi nuclei artigianali, mentre la campagna profila pochi agglomerati, ma sempre più ampi e designati a uno scambio di medio-lungo raggio che nei centri urbani importanti incrocia l’esito, o il tramite, privilegiato del proprio successo. Parimenti l’apparato strumentale e infrastrutturale si semplifica e si razionalizza, perché aduso a produzioni copiose, ma standardizzate, ulteriore segno di un mutato orizzonte socio-culturale che coglie un segno patente – ad esempio – nel cambiamento del rituale funerario46.
Per quanto riguarda infine l’età imperiale, su 18 contesti censiti 9 rimandano a reperti mobili, 6 a installazioni fisse, 3 al riconoscimento di entrambe le evidenze (fig. 13). Quanto agli aspetti della distribuzione macroterritoriale, viene ribadito il datum acquisito per i secoli risalenti che lascia emergere una maggiore vivacità nella parte settentrionale della regione, dove si contano 10 contesti, mentre soltanto 3 risaltano nel comparto centrale, 1 a Taranto, 2 nel territorio di Brindisi e 2 nella Calabria. Tuttavia, di contro al periodo precedente, appaiono decisamente prevalenti l’utilizzo di fornaci a pianta rettangolare (eccetto l’impianto pirico di Giancola, pur di risalente impostazione e ancora stancamente in uso nel II secolo d.C.) e la strumentale specificità produttiva degli apprestamenti urbani e rurali: sembrano destinati i primi a manifatture, anche di pregio (pure lucerne e ceramica fine), laddove a laterizi e a ceramica d’uso comune guardano i secondi47 (fig. 14).
Quanto alla datazione, 9 contesti risultano attivi nel corso del I secolo d.C., 4 continuano a essere operanti ancora nel II secolo d.C., soltanto 2 superano la soglia cronologica della provincializzazione della regione48 e funzionano ancora in età tardoantica, mentre per 3 contesti la documentazione disponibile consente la generica datazione a età imperiale (fig. 15).
Il mero elemento quantitativo confermerebbe pertanto la generale lettura formulata di recente sulle dinamiche insediative della regione tra I e III secolo d.C., arco cronologico entro il quale si registra – pur all’interno di generalizzazioni da calmierare e sfumare secondo quadri distinti per ciascun comprensorio – un progressivo decremento del numero dei siti rurali, interpretabile quale esito di un mutamento, difficilmente valutabile nelle dinamiche e nelle cause che ne determinarono l’origine e ne accompagnarono il processo49, non già come effetto della ineffabile ‘crisi del II secolo’, che si manifestò in maniera decisa, e anche archeologicamente valutabile, soprattutto in alcune aree dell’Italia centrale tirrenica, dove maggiore impatto aveva avuto il sistema economico ‘schiavistico’ di cui la storiografia recente comunque sta stemperando la pervicace importanza solitamente attribuitale50. La situazione qui registrata non può essere considerata sintomatica di un tracollo economico evenemenziale e generalizzato, in quanto la rilevata diminuzione del numero degli insediamenti e degli impianti produttivi – vista in un’ottica contestuale e di lungo periodo e lenita dall’inevitabile parzialità delle informazioni disponibili – non va sempre letta nel segno di inesorabile involuzione e ineludibile decadenza, giacché modifiche nello sfruttamento del territorio potrebbero aver contribuito a definire un diverso quadro delle esigenze insediative e produttive della regione51.
Anche vagliando la nota pericope pliniana di Ep, 3.19.7, che sembra escludere l’uso ampio di manodopera servile e apre le maglie larghe del lavoro nelle campagne alla diffusa coesistenza dell’impegno diretto e della locatio–conductio52, recenti contributi descrivono una sostanziale continuità insediativa che però, sulla base di successivi accorpamenti fondiari, diventa molto selettiva, tende alla polarizzazione e sostiene i siti a specifica vocazione agronomica – spesso inseriti all’interno di un regime proprietario unitario –, non già quelli ad esclusiva destinazione manifatturiera53.
Un indizio in tal senso sembra offrire la ricostruzione fondiaria delle res Caesaris, che – ad esempio – solo nella parte centrale della regione conta ben 8 nuclei, uno dei quali è stato di recente riconosciuto nel territorio di Gravina in Puglia54. Qui infatti si sarebbe formato, già a partire dall’età augusteo-tiberiana, un ampio saltus imperiale, costituito dalla villa sul colle San Felice (sede del procurator), dal villaggio di Vagnari e dal più piccolo insediamento a vocazione produttiva in località San Gerolamo. La riorganizzazione di quest’area, a scapito dell’insediamento sulla collina di Botromagno – un tempo sede della importante città peucezia di Σιλβίον-Silvium e in età romana ormai, pare, abbandonata55 – potrebbe essere stata determinata da precise motivazioni politiche e da scelte di ordine economico che, pur mutando il quadro insediativo della regione, non ne decretarono affatto il tracollo56 (fig. 16).
Un sensibile calo del numero degli impianti produttivi si registra a partire dal III secolo d.C., coerentemente con quanto è stato ricostruito per i paesaggi sia del resto dell’Apulia sia della Calabria nel medesimo periodo57, potendo indiziare la progressiva, seppure discontinua, rarefazione del popolamento sparso e la contrazione della produzione e commercializzazione dei manufatti, ora importati in consistenti quantità dall’Africa e, in misura crescente, dall’Oriente: una situazione che tuttavia conobbe nuove forme di gestione e di sfruttamento del territorio in età tardoantica, le cui mutate modalità di occupazione del suolo, forme della produzione e circolazione delle merci sembrano avere origine entro il panorama organizzativo che caratterizza il comprensorio apulo-calabro nel II-III secolo d.C.58.
Per l’età imperiale dunque si possono verificare la maggiore vivacità ribadita per la parte settentrionale della regione; il preminente utilizzo di fornaci a pianta rettangolare; la strumentale specificità produttiva degli apprestamenti urbani e rurali: destinati i primi a manifatture, anche di pregio (pure lucerne e ceramica fine (fig. 17)), mentre i secondi, più radi, guardano a laterizi e a ceramica d’uso comune; la prevalente e abbastanza continua attività riscontrata nel I secolo d.C., laddove due soli impianti funzionano nel Tardoantico; la sostanziale stabilità insediativa che però diventa mirata, polarizzata, specifica nell’assecondare vocazione agrosilvopastorale e destinazione manifatturiera (in verosimile transigenza rispetto alla notata diffusione delle res Caesaris); la contrazione della produzione e l’aumento delle importazioni dai quadranti ora emergenti nel bacino mediterraneo.
In conclusione, la documentazione fin qui considerata e le conseguenti riflessioni delineate attengono a un profilo necessariamente preliminare e pure lumeggiano un orizzonte foriero di stimolanti indicazioni, che già consentono di tratteggiare un quadro di conoscenze eterogeneo e articolato, dai contorni ancora sfumati, che il prosieguo della ricerca potrà contribuire a comporre ulteriormente, mirando a comprendere il funzionamento degli stabilimenti, le dimensioni dei forni e conseguentemente la consistenza della resa; l’organizzazione e specializzazione dell’impegno tecnico che vi si sviluppava; la topografia delle attività artigianali e il profilo economico degli operatori coinvolti; le relazioni sociali conseguenti ai vari modi e di fabbricazione e di ripartizione del lavoro; la evidenza delle produzioni note solo da manufatti finiti (‘botteghe fantasma’); la reazione diversa e complementare dei vari contesti territoriali ‘pugliesi’ investiti dalla romanizzazione e interessati allo sfruttamento vantaggioso del paesaggio. Si potrà auspicabilmente contare, in particolare, sulla lettura circostanziata dei contesti censiti, sull’apporto di mirati studi archeometrici e bioarcheologici e sul confronto integrato tra i vari sistemi di fonti, in modo da suggerire soluzioni alle quaestiones storico-archeologiche che qui si è tentato di rintracciare e di indicare alla comune riflessione.
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- Small, A.M. (2018): “The cities of central Apulia: evidence and the lack thereof”, JRA, 31, 769-773.
- Small, A.M., Volterra, V. e Hancock, R.G.V. (2003): “New evidence from tile-stamps for imperial properties near Gravina, and the topography of imperial estates in SE Italy”, JRA, 16, 178-199.
- Stoppioni, M.L., ed. (1993): Con la terra e con il fuoco. Fornaci romane del Riminese, Rimini.
- Todisco, L., ed. (2010): La Puglia centrale dall’età del Bronzo all’alto Medioevo. Archeologia e Storia, Atti del Convegno di Studi, Bari, Palazzo Ateneo-Salone degli Affreschi, 15-16 giugno 2009, Archaeologica 157, Roma.
- Todisco, L. e Volpe, G. (1992): “La ceramica”, in: Introduzione all’artigianato della Puglia antica, dall’età coloniale all’età romana, Guide. Temi e luoghi del mondo antico 1, Bari, 1-70.
- Volpe, G. (1996): Pastori, contadini e mercanti nell’Apulia tardoantica, Munera 6, Bari.
- Volpe, G. (1999): “Aspetti della geografia economica della Puglia nei secoli III-VII d.C.”, in: Bitonto e la Puglia tra Tardoantico e Regno normanno, Atti del Convegno, Bitonto, Palazzo Episcopale, 15-17 ottobre 1998, Il Grifo 3, Bari, 87-99, tavv. I-II.
- Volpe, G. (2011): “Vagnari nel contesto dei paesaggi rurali dell’Apulia romana e tardoantica”, in: Small, ed. 2011, 345-368.
- Volpe, G. (2018): “La città che produce: alcuni spunti di riflessione”, in: Caminneci et al., ed. 2018, 7-10.
- Volpe, G. e Goffredo, R. (2015): “Gli insediamenti della Puglia settentrionale tra Romanizzazione e Tarda Antichità”, in: Marion & Tassaux, ed. 2015, 377-402.
- Volpe, G., Romano, V. e Goffredo, R. (2015): “La Daunia nell’età della romanizzazione: spunti critici di (ri)lettura”, in: ACMG 52, 463-501.
- Yntema, D. (2013): The Archaeology of South-East Italy in the First Millennium B.C. Greek and Native Societies of Apulia and Lucania between the 10th and the 1st Century BC, Amsterdam Archaeological Studies 20, Amsterdam.
- Zaccaria, C. (2008): “Attività e produzioni artigianali ad Aquileia. Bilancio della ricerca”, in: Atti della XXXVII Settimana di Studi Aquileiesi, 18-20 maggio 2006, Antichità Altoadriatiche 65, Trieste, 393-438.
Notes
- Grelle & Volpe 1994; Silvestrini 2005; De Mitri 2010; Mangiatordi 2011; Volpe 2011; Yntema 2013; Small, ed. 2014a; Fioriello 2017; Mastronuzzi et al. 2018, ove si valorizza anche la recente scoperta di una fornace, con pianta sub-circolare, datata al II et III secolo d.C. e destinata alla produzione di tegole.
- Silvestrini 2005; Mangiatordi 2011; Small, ed. 2011; Grelle & Silvestrini 2013; Goffredo 2014; Grelle et al. 2017; Volpe 1996; Id. 1999.
- De Filippis 2008-2009; Fioriello, ed. 2012a; Fioriello & Mangiatordi 2013; Small, ed. 2014a; Ceraudo 2015; Lippolis 2015; Mangiatordi & Fioriello 2015; Volpe & Goffredo 2015; Grelle et al. 2017; Volpe 2018.
- Fioriello 2008; Conte 2010; De Filippis 2010; Mangiatordi 2010; Ead. 2011; Small 2013; Id. 2018.
- Fioriello, ed. 2012a; Fioriello & Mangiatordi 2013; Mangiatordi & Fioriello 2015.
- Curri 1996; Marcone 2005; Giannichedda 2006; Id. 2018; Morel 2009; Malfitana 2012; Santoro, ed. 2017; Volpe 2018.
- Grelle & Volpe 1994; De Juliis 1996, 256-325; Id. 1997; Volpe 1996; Id. 1999; Id. 2011; Id. 2018; Grelle 2005; Silvestrini 2005; Ciancio & L’Abbate 2013; Yntema 2013; Grelle et al. 2017.
- Cuomo di Caprio 1992; Ead. 2007; Mannoni & Giannichedda 1996; Morel 1996; Id. 2002; Id. 2009; Failla & Santoro Bianchi 1997; Peacock 1997; Giannichedda 2006; Id. 2018; Pallecchi 2012.
- Si vedano, con bibliografia, almeno Polfer 2004; Id., ed. 2005; Santoro & Olari 2004; Santoro 2005; Ead. 2006; Olcese, ed. 2013; Nonnis 2015; Malfitana et al. 2018.
- In generale, anche per un profilo metodologico, ai riferimenti della nota precedente si aggiungano almeno Carandini 1981; Stoppioni 1993; Olcese 1994; Lippolis, ed. 1996; Morel 1996; Peacock 1997; Righini 1998; Santoro, ed. 2004; Ead. 2005; Ead. 2006; Ead., ed. 2017; Polfer 2004; Id., ed. 2005; Marcone 2005; Menchelli & Pasquinucci, ed. 2006; Malfitana 2012; Olcese, ed. 2013; Nonnis 2015; Giannichedda 2018; Menchelli 2018b; Volpe 2018. Utile Menchelli 2018a, qui 192, 194, anche per una panoramica su esperienze pioneristiche ed esiti recenti del “connubio ceramica-archeometria [per] ricostruire il quadro storico della cultura artigianale, dell’organizzazione economica, e degli usi ed abitudini alimentari delle antiche comunità”.
- Morel 1996; Id. 2002; Id. 2009, qui 65, 68, 76, ma anche le acute riflessioni di Marcone 2005, di Zaccaria 2008 e di Capogrossi Colognesi 2019, con i contributi pure prodotti in Segenni, ed. 2019.
- Cuomo di Caprio 1992; Ead. 2007; Marcone 2005; Giannichedda 2006, 161-188; De Filippis 2008-2009; La Serra 2018.
- Volpe 2011; Id. 2018; Grelle & Silvestrini 2013; Goffredo 2014; Volpe & Goffredo 2015; Grelle et al. 2017; Cassano et al. 2019, 85-267.
- Todisco & Volpe 1992; Ciancio, ed. 2002; De Mitri 2010; Id. 2012; Id. 2017; Todisco, ed. 2010; Mangiatordi 2011; Small, ed. 2011; Id. 2013; Id., ed. 2014a; Id. 2018; Fioriello, ed. 2012; Id. 2017; Yntema 2013; Mangiatordi & Fioriello 2015. Purtroppo emblematici restano i casi di Gioia del Colle-Monte Sannace, dove le campagne di scavo sistematiche svolte dal 1994 hanno prodotto una ‘relazione di sintesi’ e minimi contributi su quaestiones circostanziate, e di Gnatia, dove il vasto e continuativo impegno sul campo, ormai pluridecennale, non ha ancora incontrato l’esito risolutivo dell’edizione integrale e si lascia latamente apprezzare mediante radi rapporti preliminari e cursori approfondimenti monotematici: sintesi rispettivamente in Galeandro & Palmentola 2013; Palmentola 2018 (cui si è aggiunto, nelle móre di stampa di questo lavore, il ponderoso volume di Cianco & Palmentola, ed. 2019) e in Cassano et al. 2019, 400-435.
- Malfitana et al. 2018, 207-214, qui 210-211, con bibliografia, discussione e proposte diagnostiche esemplificative.
- Manacorda 1994; Lippolis, ed. 1996; Peacock 1997; De Filippis 2008-2009; Cuccovillo 2010; De Mitri 2010; Id. 2012; Id. 2017; Fioriello 2010; Id., ed. 2012; Mangiatordi 2010; Small, ed. 2011; Id., ed. 2014; Volpe 2011; Manacorda & Pallecchi, ed. 2012; Avantaggiato 2013-2014; Mangiatordi & Fioriello 2015; De Venuto et al. 2018; Giannichedda 2018; Fioriello & Mangiatordi 2020. Si conferma la considerazione ribadita di recente da Menchelli 2018a, 201: “I vasi in ceramica, come è noto, possono avere una lunga vita e dunque per interpretazioni attendibili e complesse dobbiamo valutare non soltanto le loro fasi più ovvie (produzione, distribuzione, uso e scarico), ma anche altre possibilità connesse alle sfere cognitive e sociali (fenomeni di tesaurizzazione, di riciclo, di riuso per altre funzioni e scopi)”.
- Curri 1996; Lippolis, ed. 1996; De Filippis 2008-2009; Ead. 2010; Fioriello 2010a; Mangiatordi 2011; Small, ed. 2011; Id., ed. 2014; De Mitri 2012; Id. 2017; Mangiatordi & Fioriello 2015; Mastronuzzi et al 2017; Fioriello & Mangiatordi 2019; Id. 2020.
- Fioriello & Mangiatordi 2019; Caracuta 2020. In generale, per una cómprensione ‘integrata’ dell’uso di combustibili nel móndo romano si veda ora Veal & Leitch, ed. 2019.
- De Filippis 2008-2009; Ead. 2010; Cuccovillo 2010; De Mitri 2010; Id. 2012; Id. 2017; Fiorentino 2010; Fioriello 2010; Grelle et al. 2017, 199-220, 271-325; Fioriello & Mangiatordi 2019; Iid. 2020; Caracuta 2020, ma anche le ricerche legate alla Puglia in Cambi et al., ed. 2015.
- Todisco & Volpe 1992; Lippolis, ed. 1996; Id. 1997; Id. 2015; Morel 1996; Id. 2002; Id. 2009; De Juliis 1997; Grelle & Silvestrini 2013; Yntema 2013; Mangiatordi & Fioriello c.s.
- Temi discussi e bibliografia indicata, in generale, da Lippolis, ed. 1996; De Filippis 2008-2009; Fioriello, ed. 2012; Grelle et al. 2017.
- Grelle & Volpe 1994; Volpe 1996; Id. 2011.
- De Juliis 2010; Todisco, ed. 2010; Mangiatordi 2011; Fioriello 2017.
- Mastrocinque 2010; Grelle & Silvestrini 2013, 34-108, 161-170, 196-200; Dell’Aglio 2015; Grelle et al. 2017, 65-75, 239-265; Cassano et al. 2019, 436-481.
- Lippolis & Baldini Lippolis 1997; Grelle & Silvestrini 2013, 108-133, 148-151; Cassano et al. 2019, 496-523.
- Grelle 2005; Grelle & Silvestrini 2013; Grelle et al. 2017.
- Manacorda 1994; Lippolis 1997; Mastrocinque 2010; Manacorda & Pallecchi, ed. 2012; Dell’Aglio 2015.
- De Juliis 1996; Id. 1997; Lippolis, ed. 1996; De Filippis 2008-2009; Small, ed. 2011; Id., ed. 2014; Yntema 2013; Mangiatordi & Fioriello 2015, nonché vari contributi in Todisco, ed. 2010.
- De Filippis 2008-2009; Ead. 2010; Fioriello, ed. 2012a; Fioriello & Mangiatordi 2020.
- De Mitri 2010; Manacorda & Pallecchi, ed. 2012; Mangiatordi 2011.
- Cuomo di Caprio 2007; De Filippis 2008-2009; Mangiatordi 2012; Mangiatordi & Fioriello 2015.
- Todisco & Volpe 1992; Lippolis, ed. 1996; Id. 1997; Id. 2015; De Juliis 1997 e gli interventi in Caminneci et al., ed. 2018.
- Conte 2010; De Filippis 2008-2009; Ead. 2010; De Venuto et al. 2018; Fioriello, ed. 2012a. Sempre utili in proposito le osservazioni di Zaccaria 2008 e di Morel 2009, 71-77, 83-87, n. 52, che associano (senza prevederne sudditanza) la fabbricazione fittile seriale e di qualità alla ricca agricoltura di piantagione: fenomeno con epicentro urbano che ben si coglie – ad esempio – a Canusium e a Tarentum in età tardorepubblicana.
- Ciancio, ed. 2002; Small, ed. 2011; Id., ed. 2014; Mangiatordi & Fioriello 2015; Fioriello 2017.
- Mangiatordi 2011; Small, ed. 2011; Id. 2013; Id., ed. 2014a; Volpe 2011.
- Mertens, ed. 1995; Fioriello, ed. 2012a; Goffredo 2014; Grelle et al. 2017, 221-270.
- Mertens, ed. 1995; Pietropaolo 1999; Volpe et al. 2015; Grelle et al. 2017, 224-253, 259, con le sintesi recenti in Cassano et al. 2019, 156-179, 224-267, 400-435.
- Fioriello 2008; Id., ed. 2012a; Cassano 2015; Grelle et al. 2017, 228-265.
- Morizio 1990; Fioriello 2012b; Goffredo 2014; Volpe & Goffredo 2015; Grelle et al. 2017, 223-224, 238-244, 256-270.
- Manacorda 1994; Manacorda & Pallecchi, ed. 2012; Palazzo 2003.
- Così Manacorda 1994; Grelle 2005; Manacorda & Pallecchi, ed. 2012; Grelle & Silvestrini 2013, 115-133, 196-197; Grelle et al. 2017, 290-303; Fioriello & Mangiatordi 2019; Iid. 2020. Stimolanti le notazioni di carattere giuridico in Marcone 2005, con bibliografia.
- Manacorda 1994; Manacorda & Pallecchi, ed. 2012; Palazzo 2013; Grelle & Silvestrini 2013, 188-212; Grelle et al. 2017, 142-145, 203-220.
- Marcone 2005, 7-8, 11, 14, con bibliografia, dove si stimmatizza l’asimmetria ‘eccezionale’ tra grande proprietà agricola e figlina/officina ad essa connessa, come si registra nell’entroterra di Brindisi-Giancola/Marmorelle o nella piana dell’Albegna presso l’Argentario: si tratta di “impianti che, pur lavorando in stretta relazione con le attività economiche del fundus, attuano una separazione di fatto dell’organizzazione del lavoro artigianale da quello agricolo e quindi presuppongono una più netta autonomia di queste attività da quelle agricole”. Insomma, ricordando il celebre passo di Varro, Rust., 1.2.22-23, qui si coglie bene la distonia tra l’agricoltura all’antica dei Saserna, ancorata all’autarchia efficace dell’unitarietà colturale, e l’idea innovativa di Scrofa (e Varrone), coinvolta nella polimorfica redditività della produzione fondiaria accentrata ma aperta su vari fronti e interessata ai grandi affari: sull’esigenza, all’epoca ‘inedita’, dell’exportare fructus rispetto al ‘solo’ quaerere, cogere e conservare, consolidata più tardi in Domizio Ulpiano (20 ad Sab.: Dig. 33.7.12.1-2.1), ora si veda anche Capogrossi Colognesi 2019, 15 ss., con gli altri contributi raccolti nella stessa sede da Segenni, ed. 2019.
- Volpe 1996, 58-83; Lippolis & Baldini Lippolis 1997; Ceraudo 2008; Id. 2015; Cassano et al. 2019, 496-523.
- De Filippis 2008-2009, n. 144-147; Fioriello 2008; De Mitri 2010; Manacorda & Pallecchi, ed. 2012; Palazzo 2013; Grelle et al. 2017, 203-220, 290-323, fig. 113; Cassano et al. 2019, 545, 626-627; Fioriello & Mangiatordi 2019; Iid. 2020. L’impianto di San Cataldo, attivo già nell’avanzato II secolo a.C., confluì presto nella proprietà di Visellio e quello di Felline partecipò anche alla riorganizzazione (invero fu un ridimensionamento) della medesima intrapresa brindisina grazie alla produzione di anfore Dressel 2-4 da parte di Pullius, mentre a Masseria Fano furono fabbricate anfore di ‘tipo Apani’.
- A Morel 2009, con bibliografia, si aggiungano per lo specifico locale i dati di Small, ed. 2014; De Mitri 2012; Id. 2017; Grelle et al. 2017; Fioriello & Mangiatordi 2020; Mangiatordi & Fioriello c.s. Varrà ricordare che tali tendenze prospettano sintonie con contesti contermini a quello pugliese come la Valle del Basentello/Fossa Bradanica e la Valle del Sinni (su cui rispettivamente, in sintesi, Small, ed. 2014 e Quilici & Quilici Gigli 2006; Avantaggiato 2013-2014), dove l’età tardorepubblicana/primoimperiale segna una differente organizzazione produttiva rispetto alla facies della romanizzazione marcando non già la diminuzione dei forni (che in Puglia invero aumentano ora, di poco), ma la razionale con(cen)trazione dei sistemi pirici predisposti e la loro specializzazione per la produzione e la vendita su larga scala.
- De Filippis 2008-2009; Fioriello 2012b; Id. 2014a; Id. 2014b; Mangiatordi 2012.
- Grelle & Volpe 1994; Volpe 1996.
- Volpe 1996; Id. 2011; Mangiatordi 2011; Small, ed. 2011; Id., ed. 2014a; Fioriello 2012b; Id. 2017; Volpe & Goffredo 2015.
- Si vedano, ad esempio, Marcone 2005; Santoro 2005; Ead. 2006; Launaro 2011; Menchelli 2018a; Ead. 2018b e le informazioni raccolte in Menchelli & Pasquinucci, ed. 2006, soprattutto in riferimento al territorio tiberino interno e all’agro pisano-volterrano.
- Mangiatordi 2011; Small, ed. 2011; Id., ed. 2014a; Volpe 2011; Id. 2018; Fioriello, ed. 2012a; Id. 2012c; Id. 2017; Volpe & Goffredo 2015.
- “Sunt ergo instruendi, eo pluris quod frugi, mancipiis; nam nec ipse usquam vinctos habeo nec ibi quisquam”, su cui ora Mangiatordi 2011, 99-111, n. 56-60. In generale, con bibliografia, Marcone 2005; Zaccaria 2008; Capogrossi Colognesi 2019, qui 19, n. 25.
- Volpe 2011; Id. 2018; Mangiatordi & Fioriello 2015; De Venuto et al. 2018; Giannichedda 2018; Small 2013; Id., ed. 2014a; Id. 2018.
- Small et al. 2003; Fioriello 2008b; Mangiatordi 2011; Small 2013; Id., ed. 2014a; Id. 2014b.
- Grelle 2005, secondo cui i Silvini, col territorio contermine, fino alla municipalizzazione sarebbero stati governati dal prefetto del pretore urbano: vd. infra.
- Small et al. 2003; Fioriello 2008b; Small, ed. 2011; Id. 2013; Id., ed. 2014a; Id. 2014b; Id. 2018, 773, n. 10, dove si nutrono (e sostengono) forti dubbi sulla convinzione – ampiamente accettata in letteratura – che lo scioglimento delle praefecturae sia intervenuto all’alba del principato negando perciò la residua autonomia istituzionale riconosciuta a Silvium.
- Volpe 1996; Id. 2011; De Mitri 2010; Mangiatordi 2010; Ead. 2011; Volpe & Goffredo 2015; Mastronuzzi et al. 2018.
- Grelle & Volpe 1994; Volpe 1996; Id. 2011; Id. 2018; Fioriello 2008; Id., ed. 2012a; Id. 2012c; De Mitri 2010; Id. 2012; Id. 2017; Mangiatordi 2011; Small 2013; Id., ed. 2014a; Id. 2018; Mangiatordi & Fioriello 2015; Volpe & Goffredo 2015; De Venuto et al. 2018; Fioriello & Mangiatordi 2020.